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Vi racconto la nuova geopolitica africana e mediterranea della Turchia

La strategia e la geopolitica sono come la fisica aristotelica: non esiste il vuoto. Infatti, proprio mentre l’Italia abbandona, di fatto, il fondamentale quadrante libico al suo destino e quindi alle altre potenze, la Turchia inaugura la sua nuova geopolitica africana e mediterranea.

Il trattato, concluso il 27 novembre scorso, tra il presidente turco Recep Tayyp Erdogan e il governo di Tripoli, l’unico riconosciuto dall’Onu, e più esattamente “l’Accordo per la Delimitazione dei Confini Marittimi e per la Cooperazione Militare”, permette oggi alla Turchia di inviare truppe, regolari o meno, in Libia, per il solo sostegno del Governo di accordo nazionale di Fayez al-Serraj.

L’obiettivo immediato è quello di difendere la capitale Tripoli dall’offensiva condotta dall’esercito di Khalifa Haftar, una finalità strategica alla quale la Turchia ha aderito in seguito all’invito, da parte del Governo di accordo nazionale di al-Serraj, di prendere parte alle operazioni per proteggere Tripoli, appunto, dall’esercito di Haftar.

La Tatneft russa, intanto, ha mostrato un forte interesse alla riapertura del Blocco 04, nel bacino di Ghadames, con un investimento previsto di 15 miliardi nella estrazione upstream fino al 2040, e questo è un dato politico di grande rilievo.

Mentre la destabilizzazione libica, folle e insensata politicamente, ha espulso dalla Libia proprio quelle potenze europee e occidentali che prima la controllavano o volevano recuperarla, come è stato il caso della Gran Bretagna nel 2011, il territorio della nostra antica colonia maghrebina è stato occupato da tutte quelle potenze islamiche e mediorientali, che hanno sostituito i folli e imbelli europei e americani, tutti tesi solo a eliminare il “tiranno” Gheddafi senza avere un piano qualsivoglia per la Libia del futuro.

Ovvero, la Federazione Russa e la Turchia si divideranno la Libia, facendo riferimento ai due campi avversi: il Gna tripolino di Fayez al-Serraj, che ha forti legami con la Fratellanza Musulmana, come peraltro l’attuale regime di Istanbul, e molto più stretto ancora diverrà il legame con l’Ikhwan, la Fratellanza, della Turchia di Erdogan, visto il forte e recentissimo rallentamento del nesso strategico tra la Fratellanza e il Qatar, che ormai mira ad un accordo stabile con l’Arabia Saudita.

Una nuova configurazione dottrinale, geopolitica, religiosa dell’Ikhwan, questa libica e turca, che non mancherà di modificare radicalmente la divisione schmittiana tra inimici e hostes, e tra amici e nemici, all’interno della geo-strategia di tutta la Ummah coranica.

Si andrà quindi verso una sorta di instabilità programmata, in Libia, ma con una importantissima variabile: la sostanziale espulsione da quel Paese di ogni reale influenza dell’Unione Europea e dei principali Paesi che, fino ad ora, hanno mosso le fila della politica e della guerra libica: la Francia, l’Italia, la Gran Bretagna, ma con una interessante presenza Usa ai bordi della Libia.

Tutti questi Paesi, che hanno idealisticamente eliminato Gheddafi, saranno sostanzialmente espulsi dall’esercizio di una reale influenza sui loro campioni regionali libici. E sulla futura Libia divisa in due o, forse, in tre pezzi.

La Libia si troverà divisa in almeno dua pezza, come, per dirla con Machiavelli, si trovò il corpo di Ramirro dell’Orco sulla piazza principale di Cesena, servo troppo zelante e avido dei Borgia.

Solo Russia e Turchia, d’ora in poi, avranno una vera voce in capitolo nel quadrante tra Tripoli e Bengasi. E nell’intorno strategico libico: Ciad, Mali, Tunisia, Algeria, Egitto.

E, invece di piangere sul latte versato, l’Italia, che ha dimostrato di essere totalmente incapace di difendere i propri interessi in Libia, a parte l’Eni che lo fa benissimo da sola, e che vedrà espandere il proprio ruolo economico nella futura bipartizione libica, dovrebbe ripensare anche a un nuovo rapporto bilaterale con Istanbul.

Qui non si tratta di ripetere l’errore, gravissimo e ingenuo insieme, di valutare le varie “democrazie” secondo criteri idealistici e formali, quasi come se la stessa nostra Italia non fosse esente da gravissime pecche nei meccanismi della rappresentanza politica, o della tutela della rule of law o dei diritti umani dei propri cittadini.

Anzi, invece di fare le analisi del sangue da incompetenti, sul tasso turco, russo o di altri, di democrazia, occorrerà riaprire quella grande stagione di affari, relazioni, incontri bilaterali fattivi che caratterizzò la politica estera italiana negli anni felici della cosiddetta “Prima Repubblica”.

Tutt’altro: mi ricordo di quando noi, dell’industria privata e di Stato, operavamo con la Turchia in un regime, in molti settori importanti, di quasi-monopolio: le grandi costruzioni, le autostrade, che all’epoca dirigevo, le ferrovie, le telecomunicazioni.

In particolare, mi sovviene in questo momento il nostro impegno per la diga di Kakanai, dove fu essenziale il sostegno diretto di Amintore Fanfani e l’aiuto di Giulio Andreotti, che fu determinante per la migliore risoluzione dell’appalto e del contratto.

Mi ricordo di quando un grande leader turco, Suleiman Demirel, mi dedicò il suo tempo e la sua amicizia, che erano preziosissime.

Questa era l’Italia che ho conosciuto e che ho contribuito a realizzare, non l’Italietta irrilevante che risulta dalla inesistente politica estera di qualche ex-venditore di bibite.

La logica, comunque, con la quale Istanbul si muove oggi nel Mediterraneo orientale è quella di una difesa dei suoi interessi primari al centro del Mare Nostrum, dove la Turchia di Erdogan si muove nell’ambito delle nuove opportunità petrolifere e gaziere presenti al largo di Cipro, davanti alle coste israeliane e greche, nelle acque territoriali libanesi, nelle acque territoriali egiziane.

La presenza turca in Libia e la definizione della nuova Sar e Zona economica esclusiva di Tripoli, con la nuova ricollocazione degli interessi marittimi turchi, significa una cosa sola: l’esclusione totale e immediata dell’Italia dai suoi fortissimi interessi libici, oltre che da un larvato controllo dell’immigrazione che arriva sulle nostre coste dai porti libici.

Erdogan, è ormai certo, applicherà all’emigrazione subsahariana gli stessi criteri che ha già applicato, con un suo grande successo, all’emigrazione siriana e mediorientale verso i Balcani e poi in direzione della Germania.

La controllerà con mano di ferro, se e quando gli servirà, per avere i fondi dalla Ue o dai singoli Paesi (la Germania paga, infatti, con soldi europei) o la utilizzerà, l’emigrazione subsahariana, per minacciare gli equilibri interni e esteri, in questo caso, del vaso di coccio europeo: l’Italia.

Ma l’Italia non se ne accorgerà. Basti pensare al silenzio che ha accolto la definizione della nuova area Sar algerina, che copre molte delle zone esclusive italiane.

Il principale problema è che, mentre il Mediterraneo era una assoluta priorità durante la Guerra Fredda, per la Nato e per i Paesi rivieraschi europei, ora, con la fine dello scontro bilaterale, il Mare Nostrum è diventato, nella mente di tanti pericolosi strateghi dilettanti, un’area secondaria, dove operare con destabilizzazioni a lungo termine, come le famose Primavere Arabe, o lasciando il campo ai nuovi operatori in sostituzione dei vecchi Paesi europei: la Federazione Russa, che metterà le mani sul petrolio libico insieme alla Cina, l’Arabia Saudita, a sostegno di Khalifa Haftar, l’Algeria, che ormai svolge un ruolo diretto in tutto il territorio libico, il Qatar, sostenitore di Al-Serraj, gli Emirati, dalla parte di Khalifa Haftar con soldi e armi, o ancora l’Egitto, che sostiene il generale di Bengasi per coprirsi le spalle dalla sovversione della Fratellanza, il suo nemico n.1, infine perfino la Tunisia, che si è recentemente messa d’accordo con Istanbul per portare i soldati e i jihadisti filo-turchi dal confine turco-siriano, attraverso Djerba, verso la linea più estrema di difesa di Al-Serraj.

E Tunisi è anch’essa, ormai, nell’orbita economica e strategica di Erdogan. Inoltre, i tentativi attuali dell’Iran di avere accesso stabile al Mediterraneo, altra pedina del nuovo Grande Gioco marittimo, permettono all’Arabia Saudita, agli Emirati e alla Russia di ripensare al Mediterraneo, cosa nuova nella loro analisi geostrategica, come ad un punto di primario interesse.

Il tutto mentre l’Italia, la Francia e la Gran Bretagna si disinteressano dell’Africa del Nord, per porgere il loro sguardo chissà dove.

Verso la Federazione Russa? Forse. Ma intanto Mosca si prende buona parte del Mediterraneo, da sola o in correlazione con altri Stati: la Turchia, la Siria, l’Iran, perfino l’Arabia Saudita, Israele.

Cosa faranno gli europei quando si accorgeranno di essere stati accerchiati proprio da Mosca, che loro leggevano ancora dentro il vecchio Limes della guerra fredda, che era peraltro tecnicamente sbagliato anche allora?

È questo l’effetto a lungo termine della guerra in Siria, che ha redistribuito tutte le carte dei poteri regionali in Medio Oriente e, quindi, in tutto il Mediterraneo.

La Libia è, oggi, un’area in cui gli Emirati Arabi Uniti possono giocare il loro nuovo ruolo di attori economici e geopolitici di grande rilievo, oltre a poter difendere il loro ruolo egemonico nell’Est del Mediterraneo.

Ma è Erdogan che è oggi il vero egemone nel sistema tripolino. L’obiettivo turco è, in primo luogo, quello di preservare il ruolo-chiave dei Fratelli Musulmani a Tripoli, ma è ovviamente un progetto che riguarda soprattutto l’egemonia nazionale turca.

L’Ikhwan, oltre ad avere un forte ruolo nel governo della Tripolitania, è presente anche nel Consiglio di Stato del Gna di Fayez al-Serraj.

Tre delle antiche milizie di Alba Libica sono collegate alla Fratellanza, poi c’è anche la Brigata dei Martiri del 17 febbraio, sempre legata all’Ikhwan, ma sono in forte relazione con i Fratelli Musulmani anche le Milizie di Misurata, ovvero lo Scudo della Libia, di cui tre katibe risultano oggi in solido rapporto con le forze di Haftar, il vecchio nemico n.1, nonché opera ancora in Libia la Sala Operativa dei Rivoluzionari Libici, che, lo ricordiamo, sequestrò per due ore il primo ministro Ali Zeidan, nell’ottobre 2013.

La Sala Operativa ha fatto parte anche del Consiglio della Sûra dei Rivoluzionari di Bengasi, area politico-militare nata nel 2014 come risposta alla Operazione Dignità di Haftar.

Che, a sua volta, era stata costituita per contrastare Fajr libya, “Alba Libica”, la prima organizzazione islamista-jihadista militare legata proprio alla Fratellanza Islamica.

Qui, a Tripoli, erano presenti, oltre che Alba Libica, Ansar Al-Sharia, il vero e proprio reparto qaedista della Tripolitania, i Martiri del 17 febbraio, sempre legata alla Fratellanza Musulmana, ancora lo Scudo della Libia, sempre legata all’Ikhwan, infine la Brigata Raf-Allah Al-Sabhati, una frazione della “17 febbraio”.

L’Emiro dello Stato Islamico in Libia era, lo ricordiamo, Usama Al-Qarami, cugino di Ismail al-Qarami, che fu il capo della polizia antidroga durante il regime gheddafiano.

Secondo alcuni documenti riservati pubblicati il 25 gennaio 2016 dal quotidiano AlŞharq alAwsat, lo Stato Islamico in Libia avrebbe conseguito una alleanza stabile sia con il Lifg, ovvero Al Jama’a al Islamiyyah al-Muqatilah bi-Libya, fondata dai mujaheddin libici provenienti dall’Afghanistan immediatamente prima dell’attacco delle potenze democratiche a Gheddafi, e anche con la Fratellanza Islamica della Libia.

Il loro progetto, nel 2015, era quello di impedire la formazione del governo di unità nazionale proprio di Fayez Al-Serraj, ma soprattutto era quello di colpire direttamente, a partire dalla Libia, disfatta dalla stupidità occidentale, l’Algeria, la Tunisia e l’Egitto.

Il programma dei jihadisti libici, a parte le diverse situazioni, è oggi ancora quello: partire dalla Libia per destabilizzare tutto il Maghreb.

Da qui il progetto di radicamento libico qaedista, elaborato nel dicembre 2015, mentre i suddetti occidentali festeggiavano, magari con qualche Inno alla Gioia beethoveniano, l’Accordo di Shkirat, con l’accordo successivo, che è rimasto, naturalmente, scritto sulla sabbia del deserto, tra il Congresso di Tripoli e i rappresentanti della Camera di Tobruk.

Si trattava per i qaedisti, in effetti, di unificare il Lifg, ovvero Al Jama’a Al Islamiyyah al-Muqatilah bi-libya, con la rete dei Fratelli Musulmani, con il risultato che Tripoli sarebbe passata al Lifg e alla Fratellanza Musulmana, mentre la Sirte sarebbe rimasta nelle mani dello Stato Islamico.

L’accordo tra i jihadisti fu siglato proprio nelle stanze dell’aeroporto di Mitiga, quello stesso aeroporto dove Al-Serraj, appena nominato dalle fatue democrazie Onu, non poté atterrare, perché sapeva che lo avrebbero fatto fuori in un attimo; e quindi egli arrivò, strana Venere Anadiomene, dal mare.

A questo punto, secondo l’accordo jihadista di allora, del quale rimangono ancora le vestigie, il Lifg-Fratellanza Musulmana avrebbe, appunto, controllato la Tripolitania, mentre lo Stato Islamico, con il sostegno del Consiglio della Şurã dei Rivoluzionari di Bengasi e del Consiglio della Şurã dei Mujahiddin Rivoluzionari di Derna avrebbero esercitato il loro controllo sulla Cirenaica.

Il sostegno militare e politico fondamentale, in quella fase, arrivava dalle cellule qaediste del Sinai, e questo spiega l’interesse egiziano attuale per il futuro della Libia.

L’idea qaedista sulla Libia, all’epoca, era quella di dare agli occidentali, particolarmente sciocchi, l’immagine di un coordinamento Est-Ovest del jihad libico, ma con una capacità immediata di proiezione terroristica in tutti i Paesi confinanti con l’ormai ex-regime gheddafiano.

I capi della Fratellanza Musulmana, quelli dello Stato Islamico, quelli del Lifg hanno sempre coordinato le loro azioni e anche organizzato operazioni comuni.

Nel marzo 2015, poi, lo Stato Islamico si organizza stabilmente anche nelle province tunisine di Madanin e Tatawin, confinanti con la Libia, tra vecchie memorie romane e straordinarie e antichissime strade.

I capi tunisini, sauditi, algerini e libici dello Stato Islamico si sono riorganizzati, nel meridione tunisino, grazie proprio alle forze di Alba Libica, Fajr Libya, legata alla Fratellanza, sono queste le forze che controllano i valichi tra la Libia e la Tunisia, ma soprattutto quelli di Ras Agadir e di altri punti di contatto, nel deserto meridionale tunisino, con le zone libiche.

E’ proprio Fajr Libya, “Alba Libica”, che permette anche oggi il transito di molti jihadisti da quelle zone e, soprattutto, il passaggio di ingenti quantità di armi.

Quelle stesse armi che l’UE, e soprattutto il più disinformato e ingenuo dei suoi membri, l’Italia, non vorrebbe più far passare dal mare, una linea di rifornimento, quella marittima, che non è mai stata essenziale per la rete degli oltre 1200 trafficanti d’armi libici e per le oltre 22 reti di contrabbando di armi ed altro, che operano ai confini con la Tunisia, l’Algeria, il Ciad e il Senegal.

Oggi, i jihadisti stranieri, coperti o meno dalle reti della Fratellanza, sono in Libia oltre 8500. Non sono tutti necessariamente collegati solo con il sistema politico tripolitano, ma anche con le reti illegali della Sirte, ancora molto attive, o della stessa Cirenaica.

Tornando alla storia dell’Ikhwan, la Fratellanza è stata fondata in Libia, secondo tutti i più affidabili report, a Bengasi nel 1949, con il sostegno determinante di alcuni Fratelli Musulmani egiziani che erano fuggiti da una repressione particolarmente dura messa in atto dal governo del Cairo.

Fu Gamal Abdel El-Nasser a ridicolizzare la Ikhwan, raccontando alla Tv egiziana che aveva fatto chiamare il capo della Fratellanza, al quale aveva chiesto che cosa gli islamisti volessero fare, da subito, in Egitto.

Al Qutb, il capo dei Fratelli, che pure avevano aiutato in un primo momento gli “Ufficiali Liberi” di Nasser, gli rispose che voleva obbligare le donne a portare il velo. Nasser gli rise in faccia e gli disse che nemmeno la figlia di Qutb, studentessa di medicina, lo portava mai. Muammar al Minyar el Gheddafi comunque non pone tempo in mezzo, appena arrivato al potere, nel 1969, con un golpe progettato dai Servizi italiani in un albergo di Abano Terme e pone immediatamente fuorilegge la Fratellanza.

L’Ikhwan libica, e soprattutto alcuni tra i suoi dirigenti più prestigiosi, scappa, dal 1971 in poi, verso gli Stati Uniti. Si ricordi che sono proprio i ragazzi della Fratellanza che operano a difesa, anche militare, della rivolta di Piazza Tahrir, al Cairo, e sono i siti riservati dell’Ikhwan che diffondono, in Egitto e altrove, i manuali della “guerra nonviolenta” di Gene Sharp e dei Servizi Usa.

In Libia, appena nel 2012, poco dopo la fine del Colonnello, che era il nostro vero asset strategico nel Maghreb, la Fratellanza Musulmana organizza il Partito della Giustizia e della Costruzione, diretto da Mohammad Sowan, una organizzazione modellata sul criterio del Partito della Libertà e della Giustizia organizzato dall’Ikhwan in Egitto, ma in Libia il partito dell’Ikhwan diviene subito il secondo più eletto nelle elezioni del luglio 2012, con 34 dei 200 seggi disponibili nel parlamento post-gheddafiano.

Il partito della Fratellanza fa alleanze, preferibilmente, con le forze nazionaliste e laiciste, quali, per esempio, il Blocco dell’Alleanza Nazionale, spesso ricattando i parlamentari, comunque, del Blocco, che erano, accadeva molto spesso, vecchi dirigenti del regime gheddafiano e, quindi, secondo la ormai ben nota stupidità occidentale, non potevano partecipare alle elezioni o alle cariche per almeno dieci anni dalla fine del regime del Colonnello.

All’inizio della crisi tra il Consiglio di Sicurezza del Golfo, dominato da sauditi e Emirati, sono proprio i dirigenti libici a indicare alcuni membri del Parlamento e delle varie forze politiche libiche legati al Qatar, soprattutto tra i deputati del partito della Fratellanza, che risultano essere, secondo la terminologia internazionale, dei “terroristi”.

Ricordiamo, poi, che “Alba Libica” ha preso il controllo di Tripoli nel settembre 2014. È stato quello il momento in cui il governo dell’Accordo Nazionale ha organizzato il suo reale potere. Ed è questo il momento, anch’esso, in cui il vecchio Parlamento tripolino, esautorato, si sposta a Tobruk e ricostruisce un governo non internazionalmente riconosciuto, nel maggio 2014.

Gli occidentali, avendo la possibilità di riconoscere un governo libico sostenuto dai jihadisti, non se la lascia scappare. Ma il partito della Fratellanza, in Libia, perde ben nove seggi nelle elezioni del 2014 e inoltre, sempre nel 2014, il Partito della Fratellanza in Libia si collega ancora più strettamente con Alba Libica, un gruppo costituito da varie milizie islamiste, che ha come scopo primario proprio quello di garantire, in Parlamento ma soprattutto nella società civile libica, una forte presenza dei gruppi e dei partiti legati all’Ikhwan.

 Ma perché la Turchia, quindi, si rivolge alla Libia? In primo luogo, perché Bashar el Assad ha preso da poco tempo Maarrat an-Numan, nel Nord-Est della Siria, la città più importante del distretto di Idlib che si trova sulla autostrada M5, quella che unisce Damasco a Aleppo.

Inoltre, Assad è riuscito anche a riconquistare Saraqib, altro polo importante, che controlla sia l’autostrada M5 che la direttrice stradale Aleppo-Hasakah.

Per le truppe turche, quindi, non vi è più la possibilità di controllare o condizionare il regime baathista di Damasco che, lo ricordiamo, ha sempre protetto i curdi del Pkk in funzione eminentemente antiturca.

Quindi, in sostanza, Ankara recupera ad Est quello che non può più stabilizzare ad Ovest. È anche probabile che la prevedibile reazione turca contro Assad, dopo che le forze siriane avranno completato la presa si Saraqib, avrà un sostegno evidente da parte degli Usa, che hanno tutto l’interesse a rafforzare Ankara in funzione anti-iraniana e antirussa.

Il possibile cuscinetto per i migranti provenienti dalla Siria e dall’Iraq, che è un progetto a breve termine dei turchi, sarà, con ogni probabilità, garantito solo da un accordo con la Russia. Mosca ha poi già lanciato il TurkStream, la pipeline che trasporterà il gas russo verso l’Europa meridionale e che passerà dalla Turchia, evitando le reti ucraine. Ecco la chiave, quindi, del rapporto positivo tra la Federazione Russa e la Turchia, rapporto che, con ogni probabilità, si ripeterà anche in Libia.

La Francia ha già mosso la sua portaerei Charles De Gaulle in esercitazioni congiunte insieme alla Marina Militare greca, evidentemente per intralciare la proiezione di potenza turca in Libia ma, in particolare, anche a Cipro, area essenziale per le nuove estrazioni di petrolio e di gas. La correlazione tra Libia e Cipro, in questo caso, è immediata e essenziale.

La Francia e i greci hanno poi individuato e controllato, durante le loro operazioni, la motonave Bana, turca, che ha attraccato a Tripoli scaricando cingolati da trasporto turchi, mortai pesanti, cannoni antiaerei e camion da trasporto truppe.

Il capo dei Servizi turchi, il Mit, Hakan Fidan, è stato nei giorni scorsi in Tripolitania per sovrintendere ai trasferimenti di armi e alla organizzazione di campi di addestramento delle forze di Al-Serraj, oltre alla costituzione di una unità di collegamento tra le forze tripoline e l’esercito turco, con ben 400 ingegneri militari turchi che hanno messo a punto una rete di torri di guardia e la nuova fortificazione completa della città di Tripoli.

Ecco, questo sarà la nuova equazione strategica turca, il nesso tra il mare cipriota e le coste tunisine e libiche del Mediterraneo, mentre l’Europa riunisce commissioni e conferenze inutili sulla pace in Libia e piange inutilmente sul ridicolo tentativo di bloccare il flusso delle armi alle fazioni libiche.

 

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