Il Festival di Sanremo è diventato una ricorrenza da celebrare (Stefano Balassone), come il Natale o il Capodanno. È l’evento mediatico per definizione che ci obbliga (il termine è pertinente) a vederlo perché è argomento di discussione all’interno delle famiglie (una volta tanto riunite nel salotto di casa), dei commenti in diretta sui social e delle discussioni il giorno dopo nei luoghi di lavoro. Un evento il cui successo prescinde dai contenuti, un rito mediatico forse unico al mondo (paragonabile solo al Super Bowl, anche se in questo caso si tratta di un avvenimento sportivo). Sono 70anni che si ripete questo rito televisivo, un monumento della comunicazione capace di rinnovarsi continuamente.
L’edizione di quest’anno ha avuto un successo considerevole, sancito dagli elevati ascolti (lo share ha sistematicamente superato il 50% toccando punte prossime al 70-80%). Hanno di certo contribuito all’affermazione le “invasioni” di Fiorello, un vero one man show, la scelta azzeccata degli ospiti, una conduzione mai fuori le righe e che anzi ha avuto la capacità, rara in questi casi, di non cercare continuamente i riflettori. Forse proprio la musica, le canzoni ed i cantanti in concorso hanno suscitato qualche dubbio, peccati veniali in quanto soverchiati dal successo dell’evento nel suo complesso.
Sanremo ha fatto di nuovo il “miracolo”! Ed il vero miracolo è stato soprattutto, a parer mio, il fatto che il programma si è come spalmato sull’intera popolazione, in sostanza è stato visto da quasi tutte le tipologie del pubblico. Prendiamo come esempio l’età del pubblico televisivo. L’età media del Festival è di poco superiore ai 50anni, dato che si avvicina a quello della popolazione italiana, che è di 44anni. Questo vuol dire che Sanremo è stato visto anche dai giovani (aiutati da RaiPlay e dai social). Una rarità per la tv in generale e un fatto clamoroso per la Rai, il cui pubblico è il più vecchio fra le televisioni nazionali. Il 74% del pubblico che guarda Raiuno ha più di 55anni, mentre gli over55 sono 53% dell’intera platea televisiva e rappresentano il 38% della popolazione. L’età media del pubblico del Tg1 serale, per esempio, è pari a 64anni, ciò vuol dire che trovare un ventenne che alle ore 20 guardi il telegiornale nazionale (come si chiamava una volta) è una vera rarità.
Il contratto di servizio che lega lo Stato alla Rai, impone a quest’ultima di contribuire alla “coesione nazionale”. Sanremo è riuscito nell’impresa: è stato l’istantanea dell’Italia tutta. Di questo la Rai giustamente va fiera; le si chiede però di impegnarsi maggiormente affinché ciò non avvenga solo con Sanremo, una volta all’anno (e in altri rari casi, come i programmi di Angela e qualche fiction), ma sia una costante della sua programmazione, programmazione che nelle ultime stagioni sta invece deludendo.
Il contratto di servizio obbliga la Rai, come detto, di riunire e non di dividere il pubblico (d’altronde tutti sono obbligati a pagare il canone, le famiglie composte da anziani come quelle composte da giovani), è un obbligo che condiziona la sua stessa esistenza come servizio pubblico. In un Paese che, secondo l’ultima relazione dell’Euripes, si è ‘incattivito’, c’è bisogno di una tv che “parli” con tutti, che dia un’informazione non faziosa, che diffonda valori condivisi, magari anche a scapito dell’audience.