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Nucleare nel Golfo. Cosa si muove a Riad e Abu Dhabi. Analisi del CeSI

L’Arabia Saudita è già operativa da diverso tempo, gli Emirati Arabi Uniti hanno formalizzato il loro piano il 17 febbraio: presto la Penisola arabica avrà la sua prima centrale nucleare – e sarà quella di Barakah, nella parte occidentale degli Emirati, verso il Qatar e il confine saudita.

“La produzione di energia nucleare nella penisola del Golfo rappresenta un avvenimento di fondamentale importanza per gli equilibri geo-energetici quanto securitari nell’area”, spiega Lorenzo Acquaviva in un report per il CeSI. Abu Dhabi e Riad intendono usare il nucleare all’interno dei più ampi piani di differenziare dal petrolio, però la partita non è solo energetica. Acquaviva aggiunge che lo “sviluppo del nucleare in quest’area, di fatti, alimenta dubbi su un possibile utilizzo dello strumento ad un uso militare, per via della facilità di riconversione e la presenza di alcune tecnologie, come le centrifughe per l’arricchimento dell’uranio, che presentano una funzione dual use“.

E il quadrante è delicatissimo. Basta pensare che all’interno del Golfo Persico si gioca la partita tra Pasdaran, Stati Uniti e alleati regionali (su tutti proprio sauditi ed emiratini). Nei mesi scorsi si è arrivati a muovere colpi proibiti che hanno portato la crisi sull’orlo dell’escalation. E tutto è da ricollegare all’uscita unilaterale dell’amministrazione Trump dall’accordo sul congelamento del programma nucleare iraniano che era stato deciso nel 2015. Anche in quel caso, il piano della Repubblica islamica aveva una base civile, ma anche (o soprattutto) una componente militare dal valore strategico.

Abu Dhabi ha messo a disposizione 25 miliardi di dollari per progettare l’impianto di Barakah in cooperazione con la Korea Electric Power Corporation di Seul – 4 reattori necessari a produrre 5,6 gigawatt di elettricità, che copriranno il 25 per cento del fabbisogno energetico emiratino, un piano geo-energetico che dovrebbe permettere di affrontare il fabbisogno crescente. “Le modalità di produzione nucleare di Abu Dhabi permettono di configurare come abbastanza remota l’eventualità che il governo emiratino stia valutando l’opzione di dotarsi di armi nucleari”, spiega Acquaviva. Gli Emirati in effetti non hanno mai dimostrato un certo genere di interesse, non si sono mossi per dotarsi di impianti per l’arricchimento dell’uranio, stanno collaborando con l’agenzia Onu addetta al monitoraggio dell’energia nucleare (l’Aiea).

“Nonostante le motivazioni alla base della diversificazione siano simili a quelle emiratine, diversa è la posizione saudita sull’ipotesi di sviluppare il nucleare a fini militari”, continua l’analista italiano nella sua trattazione. Riad ha infatti mostrato un certo interesse, più o meno apertamente, fin dal marzo 2018, quando l’erede al trono, Mohammed bin Salman ha paventato questa possibilità qualora faccia lo stesso l’Iran. “La posizione saudita sull’arricchimento autonomo dell’uranio rappresenta uno strumento di particolare frizione con gli Stati Uniti, alleato primario dei sauditi”, aggiunge Acquaviva. Washington vuol monitorare la transizione, vuole controllare che non si creino squilibri strategici, e per questo vuole esserne partner. Ci sono interessi economici molto importanti in ballo, ma c’è anche un vincolo legislativo che impedisce agli Usa di creare cooperazione con paesi che intendono usare il nucleare per fini militari.

Un elemento problematico, perché se gli americani si trovassero costretti a rinunciare per legge alla collaborazione con i sauditi sul nucleare, potrebbero essere sostituiti da Paesi che si creano molto meno scrupoli etici. Su tutti la Russia e la Cina, che già hanno iniziato a creare meccanismi di partenariato con i sauditi.

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