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Parole non pietre. Ecco il patto contro la narrativa della paura e dei muri

Sala gremita a La Civiltà Cattolica per l’incontro “Parole non pietre”, promosso dalla Federazione Nazionale della Stampa e al quale sono intervenuti cattolici, valdesi, ebrei, musulmani e giornalisti di ogni credo e non credenti, insieme a esponenti del governo. Già questa è una notizia in sé, in tempi di sindrome da coronavirus. Centinaia di giornalisti, giunti da Roma ma anche dal resto del nostro Paese, non hanno voluto sottrarsi all’impegno di testimoniare il loro impegno per il bene comune e la reciproca comprensione.

La tavola realizzata da Mauro Biani riassume benissimo il senso di quel che si è detto: se non tiene conto di quella degli altri la verità dei media non è completa, quindi non è tale.

L’incontro ha preso le mosse dalla Carta di Assisi, un documento redatto da giornalisti attenti alla verità degli altri in termini culturali, non ideologici. Non sono le ideologie ad avere diritto di essere ricordate in una sorta di par condicio della verità, ma le culture, che hanno nelle diverse appartenenze culturali e religiose un tassello fondamentale della loro storia, della loro appartenenza ai diversi popoli che costituiscono nella loro diversità la ricchezza della famiglia umana.

La mascherina che molti indossano in queste ore è stata evocata come simbolo di un tempo segnato dalla socializzazione isolata, cioè da un’epoca nella quale i social sostituiscono la comunicazione diretta, interpersonale.

“Non vogliamo essere tribù” ha ricordato Paolo Ruffini, presidente del dicastero per la comunicazione della Santa Sede. Per lui il rischio che i titoli più “accattivanti” siano quelli più “cattivi” dovrebbe suonare a monito per tutti gli operatori dell’informazione.

Applauditissima la presidente della comunità ebraica romana, Ruth Dureghello, che ha ricordato l’importanza di due parole, “fiducia” e “speranza”. In ore così difficili le sue parole sono suonate come conforto per molti, sebbene non abbia dimenticato di far riferimento a tanto altro che invece preoccupa. La responsabilità dei media è stata equiparata a quella delle religioni dal segretario del comitato per l’attuazione del documento sulla fratellanza firmato da papa Francesco e dal grande Imam dell’Università islamica del Cairo, lo shayk Ahmad al Tayyeb. Come nelle religioni alcuni hanno usato decontestualizzandole delle parole per giustificare la violenza nel nome di Dio così nei media, nel nome di interessi o di ideologie, alcuni hanno distorto i fatti, sperando e allontanando. Ora servirebbe un nuovo patto tra media e religioni nel nome della conoscenza reciproca e del bene comune.

L’incontro ha fatto chiaramente percepire la minaccia che grava sulle nostre società e sul nostro sistema informativo, che non è solo la bolla dell’uso dei “data”, ma anche la chiusura degli spazi di conoscenza reciproca in favore di una conoscenza identitaria, oppositiva e contrappositiva.

Le parole più chiare in questo senso le ha pronunciate padre Antonio Spadaro, che ha accompagnato la lunga discussione sottolineando come ogni informazione crei relazioni e come oggi esista una narrativa della paura e quindi dei muri. Quindi il coronavirus è una malattia epidemica che mette sotto stress corpo e anima, attaccando la fisiologia sociale. “La mascherina – ha scandito – diviene una condizione umana”. Le parole, ha aggiunto padre Antonio Spadaro, “possono diventare ponti e non pietre da scagliare addosso”, ha affermato, soffermandosi sull’importanza dei mezzi di comunicazioni di massa per incrementare le energie positive.

La piaghe ricordate da molti, in particolare dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio Martella, fanno capire però quanto lavoro ci sia da fare: antisemitismo, islamofobia, persecuzioni dei cristiani in tanti Paesi del mondo, femminicidi, omofobia, antigitanismo, varie e diverse forme di espressioni discriminatorie. Il lavoro da fare per i media è davvero tanto.

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