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Non solo coronavirus. Perché la Cina sta diventando tossica. Parla Pelanda

Due mesi. Tanto servirà alla Cina per capire se all’indomani dell’emergenza coronavirus ci sarà una ripresa oppure, al contrario, si apriranno le porte della recessione. L’estremo Oriente vive uno dei suoi momenti più difficili, almeno dalla fine della Seconda guerra mondiale. Il Dragone è in ginocchio, con la produzione industriale ferma. E il Giappone, una delle economie mondiali più avanzate (ma con un debito pubblico superiore al nostro), negli ultimi tre mesi del 2019 ha subito un crollo del Pil del 6,3% su base annua. Insomma, due delle economie più decisive per le sorti del mondo, sono in crisi, anche se per motivi diversi. Almeno apparentemente. Formiche.net ha chiesto il parere di Carlo Pelanda, politologo, economista, professore di Geopolitica economica all’Università degli Studi Guglielmo Marconi.

Pelanda, la Cina dopo il coronavirus. Che cosa succederà?

La questione è semplice e si gioca tutta in un paio di mesi. E cioè se entro la fine di aprile ci saranno segni di risveglio dell’economia cinese allora nei mesi successivi ci sarà un rimbalzo a livello globale. Ma se questo invece non accadrà ed entro due mesi non ci saranno segnali, allora tutto il sistema globale entrerà in recessione. Diciamo che entro due mesi la Cina capirà se andrà incontro alla catastrofe oppure no.

Nello scenario peggiore ci saranno effetti collaterali non trascurabili, si suppone…

Per l’Italia potrebbero esserci problemi seri per quanto riguarda il turismo. E nella stessa Cina ci saranno sicuramente meno soldi. Senza considerare i danni per le case automobilistiche, che hanno perso parecchie quote di mercato in loco. Chi potrebbe avvantaggiarsi è però l’America, la quale potrebbe sfruttare questo momento per tagliare fuori dall’economia mondiale la Cina. Questo ovviamente nello scenario peggiore, che darà vita a una recessione globale diffusa.

Chi pagherebbe il conto più salato, alla fine? 

Certamente l’Eurozona. E non solo perché esporta parecchio. Anche perché le regole fiscali dell’Eurozona non permettono politiche espansive che possano in qualche modo fare da reagente a una crisi profonda della Cina.

Pelanda che cosa faranno gli Stati Uniti dinnanzi a una Cina in recessione. Proseguiranno nel richiedere il rispetto dei patti commerciali che hanno posto, per ora, fine alla guerra dei dazi?

Chiariamoci, tra Cina e Usa è in atto una guerra vera, totale. Non vedo atti di misericordia e dunque credo che continueranno a pretendere il rispetto dei patti. Anche se Trump non fosse rieletto, ormai la guerra alla Cina è una questione di bandiere, non di presidente. Un po’ come Roma contro Cartagine.

La Cina sembra avere un altro problema oltre al coronavirus. Le banche…

Esatto. C’è un buco di liquidità impressionante, tutte le banche in Cina sono in difficoltà. E la prova di questa situazione è la Via della Seta, un progetto che andava finanziato direttamente dagli istituti cinesi. E ora, che i soldi non ci sono, la Via della Seta nella pratica, non c’è. In tanti parlano della Via della Seta, ma non ci sono i soldi delle banche. Voglio dire una cosa forte: la Cina sta diventando tossica per il business mondiale. Meglio starci lontano, commerciare sì ma non troppo. Perché può succedere di tutto.

Eppure la domanda di questi giorni è se la Cina si sia mossa per tempo contro il coronavirus e se le misure messe in atto siano state efficaci. Lei che dice?

Diciamo che c’è stato un ritardo che ha costretto il Paese a dotarsi di una quarantena che sembra essere efficace. Però l’irruenza della stessa quarantena fa capire che il virus è comunque uscito dalla gabbia, e lì forse si poteva fare qualcosa in più.

C’è un’altra economia pesante in crisi, il Giappone. Negli ultimi tre mesi dell’anno il Pil è crollato. 

Il dato è grosso. Ma temo sia un qualcosa di correlato alle cadute del Pil in Eurozona, soprattutto in Italia e in Germania. Il Giappone però, a differenza di molti altri Paesi ha molte risorse per farcela e soprattutto può contare su una politica monetaria che va nella direzione della crescita. Non è la stessa cosa, per esempio, in Europa.



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