Finalmente, dopo anni di mugugni spesso sfociati nel risentimento, la Commissione europea apre all’ipotesi di una revisione del Patto di stabilità e crescita. Che Romano Prodi, da presidente della stessa Commissione, non aveva esitato a definire, in una famosa intervista a Le Monde, “stupido, come tutte le decisioni rigide”. Ma forse necessario, come è il caso di aggiungere, a dimostrazione che al peggio non c’è mai fine. Quella pronuncia aveva preso corpo nell’ottobre del 2002. Poi, a seguito dello scatenarsi della crisi del 2007, con il fallimento della Lehman Brothers, quelle stesse regole si erano incattivite, con il fiorire di mille altri algoritmi (deficit strutturale, obiettivo a medio termine, output gap, componente ciclica del saldo di bilancio, solo per citarne alcuni) che avevano complicato la vita degli Uffici statistici, ma non cambiato la situazione generale.
I Paesi più forti erano divenuti più forti. Quelli più deboli rimasti indietro. Con l’effetto di interrompere quel tenue filo della convergenza che si era manifestato, seppur debolmente, dalla nascita dell’euro fino, appunto, alla Grande crisi. Da allora quindi una crescente divaricazione tra le diverse realtà. L’Europa Carolingia che si contrappone a quella mediterranea. Il formarsi di un nocciolo duro, come quello che unisce Paesi come la Germania, i Paesi bassi, e la Finlandia: teorici di una politica del rigore. Perfetta foglia di fico per mascherare (almeno per alcuni) un vantaggio comparato gigantesco: quel forte attivo delle partite correnti della bilancia dei pagamenti (8, 10 per cento del Pil) che ha fatto più volte imbestialire i vari Presidenti degli Stati uniti. Ma che solo Donald Trump ha posto al centro delle sue recriminazioni contro un’Europa da troppo tempo abituata a non pagar di conto, approfittando della generosità (soprattutto militare) dei propri alleati.
Il vecchio Patto di stabilità, nel nuovo format del Fiscal Compact, non aveva fatto altro che accentuale tutte relative contraddizioni. Riducendo quello spirito di solidarietà – lo si è visto in modo clamoroso nella gestione dei flussi immigratori – che, negli anni d’oro della costruzione europea, aveva permesso ad una grande moltitudine di riconoscersi in valori fondanti la nuova realtà. Nello spirito di Parigi, come patria di quell’illuminismo che aveva segnato gran parte della storia universale. Nelle libertà di Londra, come monito agli eccessi di statalismo. Nella stessa Germania, dopo le grandi ferite delle due guerre mondiali, nella speranza di una loro definitiva archiviazione. Mentre Roma rimaneva quella città eterna da visitare, almeno una volta nella vita.
Questo avveniva prima del decisivo avvento dei ragionieri. Dei loro calcoli astrusi, delle piccole furbizie. Quelle secondo le quali si affermava di voler guardare ai veri fondamentali di ciascun Paese – l’Alert mechanism – per poi dimenticare il tutto e concentrarsi solo sulla regola del debito o del rapporto deficit- Pil. Come se la soluzione potesse essere racchiusa, come ancora oggi taluni sostengono, solo in un rapporto numerico, in grado di escludere ogni altro riferimento di politica economica. Una piccola barbaria, se vista con gli occhi di un retroterra culturale, quale quello continentale, che è unico al mondo. Forzatura che contribuisce a spiegare le reazioni che si sono, poi, avute in quasi tutti i Paesi. Quelle forme di populismo o di sovranismo che, alla fine, hanno convinto o costretto gli ortodossi ad aprire gli occhi, prima di perdere completamente la partita.
Come spesso è capitato nella storia europea, non saranno in molti ad ammettere gli errori passati. Si preferisce semplicemente voltar pagina, cercando nuove motivazioni che giustifichino il cambio di passo. Come ha osservato Joseph Stiglitz, premio Nobel per l’economia nel 2001, e da sempre contrario alle regole dell’austerity, l’Europa ha compiuto il suo salto mortale inneggiando al Green Deal. L’occasione, subito afferrata, per cercare di mandare in soffitta un vecchio sistema di controlli e di gestione finanziaria. Gli esisti definitivi sono ancora incerti. Al momento si tratta solo di aprire un grande dibattito per decidere la direzione di marcia, pur partendo dai limiti finora riscontrati: freno alla crescita, eccesso di debito, impostazione spesso pro-ciclica della politica di bilancio, procedure fin troppo farraginose.
L’invito a partecipare è rivolto un po’ a tutti: governi, parti sociali, economisti, università e società civile. Saranno chiamati ad esprimersi su domande specifiche, che racchiudono il tema. Come fare a ridurre gli squilibri macroeconomici? Come assicurare stabilità dei conti a breve e lungo termine? Come accelerare lo sviluppo dei Paesi meno resilienti? Saranno ancora necessarie sanzioni ed incentivi? Dovrà esserci una golden rule per gli investimenti green e come organizzarla? Il tutto da completare entro un anno, al termine del quale passare alle necessarie soluzioni, nel segno di una ritrovata stabilità finanziaria, rivolta tuttavia a favorire la crescita e l’inclusione. Non sarà facile, ma vale la pena provarci. Nel frattempo, tuttavia, è bene non sviluppare iniziative di segno contrario, come potrebbe essere l’entrata in funzione del Mes (il meccanismo europeo di stabilità). Purtroppo non sarebbe la prima volta. A Bruxelles può valere ancora la regola della “doppiezza”, nonostante uno Zeitgeist in netta controtendenza.