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Proprietà intellettuale, ecco come Cina e Usa lottano per l’agenzia Onu

Lo scontro per la guida della Wipo (World intellectual property organization), l’agenzia della Nazioni Unite che si occupa di proprietà intellettuale, è diventato una priorità per la diplomazia americana, perché il ruolo apicale potrebbe essere occupato da un cinese. L’incarico dell’attuale direttore, l’australiano Francis Gurry, è in scadenza, e Pechino ha già allungato i propri interessi in quello che sarà l’organismo che monitorerà le regole internazionali su un tema delicatissimo. A maggior ragione in questo momento.

L’evoluzione tecnologica è il motivo profondo dello scontro tra americani e cinesi; un confronto tra potenze che si muove lungo la traiettoria della nuova rivoluzione industriale che caratterizza parte del presente e il prossimo futuro. Ambito in cui la proprietà intellettuale è un elemento fondamentale. Anzi, alla base delle principali diatribe con gli Usa c’è proprio questo: gli Stati Uniti hanno più volte attaccato la Cina per furti di di proprietà intellettuale e spionaggio industriale – che secondo Washington hanno permesso alle aziende statali cinesi di spingersi ai vertici dei mercati.

I primi di marzo si voterà per rinnovare la carica del Wipo e i diplomatici americani in tutto il mondo stanno già lavorando con le varie controparti per veicolare la scelta contro-la-Cina all’interno dei meccanismi dell’organizzazione. È il dipartimento di Stato di Mike Pompeo che sta gestendo la pratica. Sarebbe assurdo, dicono a Bloomberg le fonti di Foggy Bottom, se la Cina, a lungo accusata di rubare il know-how agli americani, dovesse arrivare a guidare l’organizzazione, che è tra l’altro depositaria delle domande di brevetti internazionali. C’è una questione tecnica: quei brevetti vengono inviati alla Wipo che li tiene sotto esame per 18 mesi, un tempo che i cinesi potrebbero usare per copiare e passare informazioni alle proprie aziende – almeno questo è il timore americano.

D’altronde lo stesso Pompeo era stato molto chiaro: “I cinesi hanno rubato centinaia di milioni di dollari di proprietà intellettuale agli Stati Uniti d’America”, ha detto ai giornalisti che lo accompagnavano alla Conferenza di Monaco. “Faremo in modo che chiunque gestisca tale organizzazione capisca l’importanza di far valere i diritti di proprietà intellettuale attraverso le nazioni e oltre i confini”. L’argomento è parte del dibattito interno americano: l’Heritage Foundation ne ha parlato in un report uscito la scorsa settimana, e da almeno un mese chi scrive ne registra le preoccupazioni tra i funzionari statunitensi in Italia.

La diatriba si inserisce in un quadro più ampio. L’amministrazione Trump ha iniziato a preoccuparsi del fatto che la Cina stia assumendo via via il controllo di importanti organizzazioni multilaterali. Realtà cruciali per assumere decisioni che spesso definiscono i contorni delle governance globali. È il caso del sistema della agenzie dell’Onu, dove la leadership è affidata di solito al Paese che vi investe più soldi. E da tempo l’Occidente – e soprattutto gli Usa “America First” di Trump – hanno smesso di investire nelle missioni e nei piani all’interno di queste agenzie. Ruolo in cui anche in questo caso si è sostituita la Cina, con un interesse diretto.

Pechino intende usarle per veicolare le proprie priorità politiche, economiche e commerciali. Un esempio dal caso Covid19: un’avvocatessa cinese presiede l’Icao, l’agenzia internazionale per l’aviazione civile, che ha fatto in modo che tutti i Paesi del mondo considerassero Taiwan alla stregua di tutte le altre province cinesi, per quanto riguarda la chiusura dei voli per ragioni di sicurezza sanitaria. Con una decisione tecnica è passata la linea del Partito comunista di Pechino che considera la Repubblica di Cina non più che una provincia ribelle da riconquistare anche con la forza. Discorso analogo per quanto riguarda l’Oms: l’organizzazione mondiale per la sanità ha subito il fascino cinese e deciso di inviare informazioni sulla pandemia soltanto a Pechino, che poi le ha rigirate filtrate a Taipei. Taiwan ha pochi riconoscimenti formali, ma sul piano pratico (commercio, economia, relazioni) ha da tempo acquisito uno status di indipendenza.

Pechino presiede già l’Unione internazionale delle telecomunicazioni, quella dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per lo sviluppo industriale, l’Icao, e a novembre dello scorso anno ha ottenuto il controllo della Fao (dopo che Stati Uniti ed Europa s’erano divise sul candidato anti-cinese da sostenere, con i primi che sponsorizzavano un georgiano e la Francia che aveva remato per sostenere un suo uomo alla guida dell’organizzazione con sede a Roma).

L’amministrazione Trump sta lavorando per recuperare terreno. In effetti basta pensare che a guidare l’attuale sforzo Usa sulla Wipo è Andrew Bremberg, nominato solo a novembre scorso ambasciatore all’Onu di Ginevra: un posto lasciato vacante per tre anni (forse perché certi ambienti sono stati considerati il terreno di coltura delle visioni globalist detestate da Trump e dal trumpismo).



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