Skip to main content

Perché Washington e Ankara sono allineate sulla Siria (e sulla Libia)

Il presidente statunitense, Donald Trump, ha chiesto alla Russia di porre fine al suo sostegno alle “atrocità” del regime siriano e ha espresso la “preoccupazione” degli Stati Uniti per la violenza nella regione di Idlib, l‘area della Siria rimasta l’ultima in mano alle forze di opposizione.

La posizione presa dalla Casa Bianca è anche il risultato di una telefonata del giorno precedente con il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, che ha la grande abilità di stimolare il coinvolgimento americano, almeno sul piano retorico, nei dossier di proprio interesse — ma non solo (ci si arriverà, ndr). La Siria, o meglio la crisi di Idlib, è un argomento molto sensibile per Ankara. Per i turchi quello che sta accadendo con la campagna di ri-conquista siriana — supportata da Mosca — è molto rischioso sul piano degli equilibri soprattutto interni, visto che sta già innescando una nuova ondata di migrazioni verso la Turchia. Mentre il piano di Erdogan era di utilizzare il territorio di Idlib e alcune altri exclavi da costruire in Siria come cuscinetti in cui riassorbire l’immigrazione già subita in nove anni di conflitto (nei campi Turchia vivono circa 3,5milioni di siriani, altri 3 si trovano nella provincia ribelle di Idlib).

Negli ultimi due giorni, le forze del presidente Bashar al-Assad hanno ottenuto nuovi guadagni nell’offensiva contro l’ultimo grande bastione ribelle nella regione nord-occidentale. E questo è fonte di enorme nervosismo per Erdogan — che considera la questione sul piano della sua tenuta interna oltre che su quello della proiezione internazionale. Sarebbe difficile per le sue politiche nazionaliste sostenere anche elettoralmente il peso di nuovi immigrati. E stando ai dati delle Nazioni Unite, l’offensiva sostenuta dalla Russia ha scatenato la più grande ondata di sfollati nella guerra civile siriana, con 800.000 persone in fuga da dicembre. Altrettanto, perdendo Idlib, dove vivono i gruppi dell’opposizione sostenuto dalla Turchia, Erdogan avrebbe definitivamente perso la guerra in Siria, dando di sé all’esterno l’immagine di uno sconfitto.

Se Trump decide di prendere posizioni apertamente pro-Turchia in questa fase le ragioni però non sono da ricercare soltanto nel fascino esercitato su di lui da Erdogan, si diceva. C’è una ragione strategica: Ankara è parte della Nato (secondo esercito per numero), ma da diverso tempo sembra un elemento estraneo all’alleanza. E molto è dovuto anche al corteggiamento russo: Vladimir Putin ha cercato di allargare la spaccatura tra Turchia e Occidente sfruttando la situazione siriana. Mosca ha dimostrato di essere molto più coinvolta nel dossier (dove ha schierato assetti militari fin dal settembre 2015) rispetto agli Usa o alla Nato, e ha istituito un meccanismo negoziale (il sistema di Astana, dal 2016) inserendovi la Turchia. Seppur dal lato opposto delle barricate, Erdogan ha avuto la sensazione — e in pochi casi la possibilità — di sentirsi un player più attivo grazie al gioco di sponda russo. Una dualismo, su cui Mosca muove interessi divisivi guardando alla Nato e al sistema Turchia-Occidente, che attualmente è messo però in discussione dalla crisi di Idlib. “L’escalation di Idlib — ha fatto notare parlando di Russia e Turchia Eugenio Dacrema (co-head del Mena Centrr dell’Ispi) — somiglia sempre più a uno di quei giochi delle parti da commedia, dove i personaggi a furia di recitare il proprio ruolo per lungo tempo finiscono per crederci veramente”.

Washington ha un obiettivo chiaro: evitare che Erdogan scarrelli del tutto verso Putin. E questo attuale è un momento buono per essere usato come leva. Nella telefonata con Erdogan, Trump ha anche “ribadito che le continue interferenze straniere in Libia sarebbero servite solo a peggiorare la situazione”. La Libia, impantanata nel caos dalla regime change contro Gheddafi del 2011, è ripiombata di nuovo nel buio di una guerra civile. Paesi tra cui Russia, Francia, Emirati Arabi Uniti ed Egitto sostengono in modo più o meno diretto l’uomo forte dell’Est, Khalifa Haftar, mentre il governo di accordo nazionale riconosciuto dall’ONU è sostenuto da Turchia e Qatar.

Nei giorni scorsi dall’amministrazione Trump erano già uscite posizioni che seguivano un allineamento con i turchi su entrambi i dossier. Per esempio, il delegato americano per la crisi siriana, James Jeffrey, aveva detto durante un’intervista televisiva in cui sostenga il diritto turco a difendere Idlib, che “la Turchia e gli Stati Uniti hanno un obiettivo geostrategico comune in Siria e Libia, dove uno stretto coordinamento e la condivisione delle informazioni sono essenziali“. Venerdì scorso, a Monaco, c’era anche stato un incontro teoricamente riservato, ma reso pubblico dai russi, tra il segretario di Stato Usa e il parigrado del Cremlino: anche in quel caso Idlib potrebbe essere stato un argomento caldo tra quelli affrontati. Sempre la scorsa settimana si sono verificati episodi delicati al nord-siriano, dove unità statunitensi che controllano l’area abitata dai curdi e liberata dallo Stato islamico sono stati oggetto di proteste anche violente da parte della popolazione locale. Gli americani hanno anche aperto il fuoco contro quelle persone, che li avevano aggradito accusandoli di essere truppe occupanti.

 

 



×

Iscriviti alla newsletter