Un nuovo scontro tra Stati Uniti e Cina sta per andare in scena alle Nazioni Unite. Come raccontavamo alcuni giorni fa su Formiche.net, la guida della Wipo (World intellectual property organization), l’agenzia onusiana che si occupa di proprietà intellettuale, è ormai una priorità per la diplomazia americana. Il timore di Washington, in particolare del dipartimento di Stato, è che l’attuale direttore, l’australiano Francis Gurry, venga sostituto da un diplomatico scelto da Pechino, a lungo accusata di rubare il know-how agli statunitensi. Come già abbiamo illustrato, l’organizzazione è depositaria delle domande di brevetti internazionali e c’è una questione tecnica: quei brevetti vengono inviati alla Wipo che li tiene sotto esame per 18 mesi, un tempo che i cinesi potrebbero usare per copiare e passare informazioni alle proprie aziende – almeno questo è il timore degli Stati Uniti.
In prima linea, in vista del voto fissato per i primi di marzo, a Washington c’è Peter Navarro, assistente del presidente Donald Trump per le questioni commerciali. In un editoriale sul Financial Times ha scritto: “Un candidato di spicco viene dalla Cina, che ha ripetutamente alimentato critiche per aver permesso la contraffazione e il furto della proprietà intellettuale”. Poi l’affondo: “Quando vengono rubati brevetti e segreti commerciali, i prodotti contraffatti vengono prodotti e scambiati apertamente. I marchi registrati vengono violati. La concorrenza è ostacolata. I ricavi diminuiscono. Governi, imprese e consumatori perdono tutti”. E ancora: “Gli Stati Uniti ritengono che dare il controllo della Wipo a un rappresentante della Cina sarebbe un terribile errore. La Cina è responsabile dell’85% dei prodotti contraffatti sequestrati dai doganieri statunitensi; e il furto della proprietà intellettuale da parte cinese costa all’economia americana trai 225 e i 600 miliardi di dollari all’anno”.
Sottolineiamo ancora un passaggio dell’editoriale dell’economista Navarro: “Le violazioni della proprietà intellettuale costano alle imprese europee miliardi di euro ogni anno”. Un chiaro messaggio al Vecchio continente, che gli Stati Uniti accusano di scarsa collaborazione atlantica sul dossier 5G ma anche in sede Onu. Basti pensare al caso della Fao, l’agenzia per l’alimentazione e l’agricoltura con sede a Roma, finita meno di un anno fa nelle mani del cinese Qu Dongyu nel silenzio di tutta l’Europa, Italia compresa. Anche gli sforzi dei funzionari statunitensi in Italia vanno in questa direzione.
Congelato quindi l’anti-globalismo trumpiano, onde evitare nuovi casi Fao. Silenziosamente, Washington è impegnata in enormi sforzi diplomatici per ridimensionare l’influenza crescente di Pechino alle Nazioni Unite. A novembre Andrew Bremberg è stato nominato ambasciatore all’Onu di Ginevra (un posto lasciato vacante per tre anni) mentre un mese fa Foggy Bottom ha nominato un nuovo inviato speciale con l’incarico di frenare la crescente influenza cinese alle Nazioni Unite (pensiamo alla storia dell’ICAO relativamente al Coronavirus) e in altre organizzazioni internazionali, mosse che, scrive la rivista citando fonti statunitensi, “l’amministrazione Trump ha finora ampiamente snobbato o ignorato”. Come abbiamo raccontato su Formiche.net, si tratta di Mark Lambert, fino a poco tempo fa inviato speciale degli Stati Uniti per la Corea del Nord.
Nelle settimane scorse si era mosso anche il Congresso. In una lettera aperta al presidente Donald Trump due senatori, il democratico Charles Schumer e il repubblicano Tom Cotton (R), e due deputati, il democratico Jimmy Panetta e il repubblicano Mike Gallagher, hanno chiesto di impedire a “un regime che continuamente mette in discussione lo stato di diritto non garantendo l’apertura dei mercati o il rispetto per i diritti di proprietà intellettuale” di assurgere alla presidenza della Wipo. Come ricostruito da Formiche.net, il Partito comunista cinese, scrivevano i quattro, “sta investendo strategicamente e sviluppando tecnologie critiche ed emergenti nell’ambito dell’iniziativa Made in China 2025 e altre politiche industriali aggressive”. Fra queste, “un insieme di pratiche e tattiche che obbligano le aziende americane a trasferire la loro tecnologia e proprietà intellettuale alle aziende cinesi”.