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Zone economiche speciali. I limiti italiani secondo Maurizio D’Amico (Femoza)

Di Maurizio D'Amico

Perché in Italia non decollano le Zone economiche speciali? In un precedente articolo avevamo posto l’accento sull’inadeguata struttura di governance e sul troppo frazionato regime normativo. C’è però di più. Gli incentivi fiscali e le agevolazioni amministrative che possono offrire le Zes italiane sono assolutamente risibili, soprattutto se comparati a quelli presenti in altri Paesi che sono dotati di analoghi strumenti di accelerazione dello sviluppo economico.

A tale riguardo, a scanso di equivoci, il riferimento non è certo ai Paesi extra-Ue, dove non vige il rigido limite della normativa dell’Unione europea sugli aiuti di Stato, ossia lo “spauracchio” che ogni volta i solerti sostenitori del quadro normativo realizzato nel 2017 citano per giustificare l’attuale assetto del credito d’imposta, ossia l’unica agevolazione di carattere fiscale concessa dal decreto-legge n. 91/2017, ed anzi ne celebrano, a loro dire, la capacità competitiva come importante driver di attrazione di Foreign direct investments. Chissà cosa ne pensano le multinazionali che nelle vere Zes all’estero (comprese quelle ubicate in altri Stati Ue, ad esempio la Polonia) godono all’atto dell’insediamento di un’effettiva esenzione dal pagamento di gravose imposte (ad esempio quella sul reddito delle società per determinati periodi di esercizio) e non devono assolvere subito, come avverrebbe se investissero in Italia, all’obbligo tributario, salvo poi attendere nel tempo la restituzione parziale dell’imposta versata.

Quanto alle agevolazioni amministrative, il tema delle semplificazioni come è affrontato, le rende ben poca cosa, anzi si può dire che sono del tutto inconsistenti, anche considerando che l’Italia ha il ben poco invidiabile primato di avere, forse, il più burocratico apparato amministrativo del mondo, con un gravoso sistema legislativo e regolamentare, molto elefantiaco, confuso, frammentato e grammaticalmente carente (si vedano gli ultimi rapporti internazionali) che non può che scoraggiare qualsiasi imprenditore, anche il più ostinato, desideroso di investirvi.

Di fronte alla sinora fallita operazione di restyling del Moloch burocratico della Pubblica amministrazione italiana in una direzione concretamente semplificativa, sembrano lontane anni luce gli esempi di best practice delle Zes di alcuni Paesi Ue. Come quelle della Klaipeda Free Economic Zone in Lituania, in cui l’attività produttiva può essere avviata in meno di tre mesi dalla presentazione della richiesta, all’interno di moduli organizzati in strutture produttive e amministrative, con infrastrutture e servizi compresi, quali acqua, elettricità, riscaldamento, gas, fognature, internet ad alta velocità, trasporto pubblico, parcheggio in loco. O come quelle nella Katowice Special Economic Zone (la migliore Zes europea da almeno tre anni) in cui i tempi per iniziare l’attività produttiva dal momento della presentazione dell’istanza sono ancor più brevi, consistendo mediamente in circa 1 mese e mezzo. Non si citano, per non infierire, gli esempi di estrema snellezza delle procedure attuate in Zes di Paesi extra-Ue, rispetto all’ambito europeo molto diversi per contesti culturali e istituzionali, dove sono molto frequenti i casi in cui la durata va da un giorno a circa tre ore.

A tutto questo si aggiungono altri due elementi problematici in Italia. Prima di tutto, l’assenza di una vision di medio e di lungo periodo che consenta di proiettare il sistema di incentivi contemplati in un lasso temporale adeguato, almeno, al recupero effettivo dell’investimento, ed inoltre il quadro degli incentivi previsti che, per di più, è assolutamente disancorato da una prospettiva che tenga conto dell’intero quadro finanziario pluriennale dell’Ue 2021-2027 e degli atti normativi ad esso collegati.

In secondo luogo, i governi succedutisi sinora, nonostante la magnificazione sui media dei risultati derivati dalle scelte normative adottate su tale argomento, continuano a chiedere il supporto tecnico alla Commissione europea per l’implementazione pratica delle Zes (la redazione dei piani di sviluppo strategico è poca cosa, ben più importante è attuare tali piani, attirare gli investimenti e soprattutto farli permanere nel tempo). Ebbene, la Commissione, nel corso di soli due anni, non sapendo cosa rispondere, si è rivolta al mercato indicendo ben due “call for tender” al costo complessivo di circa 300 mila euro e, evidentemente, attraverso le società di consulenza aggiudicatarie, non è riuscita a risolvere il problema e a soddisfare le esigenze “italiche” (altrimenti non saremmo nella situazione descritta nei precitati articoli di stampa).

Ancor più non saremmo a questo punto, diversamente da quanto realizzato nei Paesi dotati di una regolamentazione sulle Zes (di tipo organico, a differenza dell’opzione scelta in Italia), le cui analisi rivelano i primi positivi effetti già prodotti dopo circa 12 mesi dalla loro creazione.

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