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L’Afghanistan verso la pace anche grazie all’Italia. Parla l’amb. Talò

Dopo quasi due decenni di guerra e anni di trattative, discussioni, attentati e decine di migliaia di vittime militari e civili, Stati Uniti e talebani hanno raggiunto un accordo per la pace in Afghanistan firmato a Doha, in Qatar. Formiche.net ha chiesto a Francesco Maria Talò, rappresentante permanente d’Italia alla Nato e tra il 2011 e il 2012 inviato speciale per l’Afghanistan e il Pakistan, un bilancio di questi due decenni con uno sguardo sul futuro.

Ambasciatore, siamo alla fine di una storia?

No, ma è un passo in avanti su un percorso ancora molto lungo. Un passo in avanti che dobbiamo salutare senza ingenuità ma con soddisfazione per quanto fatto dalla Nato e i suoi partner, in particolare dall’Italia, e determinazione in vista di un impegno che deve continuare.

È un accordo storico anche per la popolazione afghana.

Già il fatto di avere una prospettiva di pace rappresenta un successo. Reso ancora più evidente dal fatto a Kabul ci fossero tutti i protagonisti della vita politica afghana nonostante le forti divisioni, a partire dal presidente Ashraf Ghani e il suo sfidante alle ultime elezioni Abdullah Abdullah.

Che ruolo ha avuto l’Italia in questi quasi due decenni?

Dobbiamo essere soddisfatti di quanto abbiamo fatto. E, lo voglio sottolineare da italiano, lo dobbiamo ai tanti servitori dello Stato. Penso ai colleghi diplomatici – ricordo come lì, in una situazione complicata e con un impegno anche di alcuni anni, tre diplomatici su quattro che incontravo da inviato speciale erano donne -, ai servizi di informazione e alle migliaia di militari che si sono sacrificati. Un pensiero speciale va ai 54 che hanno dato la loro vita. È alle nostre forze armate che dobbiamo il livello di considerazione che il nostro Paese ha quando si parla di Afghanistan. 

Forze armate capaci di instaurare un buon rapporto anche con la popolazione locale.

I nostri militari hanno dato molto anche al popolo afghano. Ho assistito a molti incontri in Afghanistan ma anche alla Nato e ho sempre registrato gratitudine verso le nostre forze armate.

Da dove nasce il nostro impegno?

Per me continuare con determinazione l’impegno è un imperativo morale. Parte dalla mia esperienza a New York: ero lì l’11 settembre 2001, ho visto le Torri gemelle crollare dai nostri uffici vicino alle Nazioni Unite. Dieci anni più tardi, l’11 settembre 2011 l’ho trascorso con le nostre forze a Herat. Poi, da ambasciatore in Israele ho conosciuto l’esperienza di un Paese che resiste e addirittura fiorisce nonostante viva a contatto con il terrorismo. Infine, qui alla Nato ho visto il successo della missione in Afghanistan: le condizioni di vita locali sono migliorate e abbiamo garantito sicurezza alle nostre città. Infatti, non possiamo dimenticare perché andammo là: l’obiettivo era sradicare il terrorismo. È stato necessario andare in Afghanistan ma da allora non c’è più stato un attentato in Occidente proveniente da lì.

Ora che cosa accadrà?

Cambierà l’impegno: diminuirà quello militare ma rimarranno gli sforzi diplomatici. Ma l’accordo è condizionato, per questo noi dobbiamo esserci: per continuare a difendere la sicurezza delle nostre città e per essere presenti in un Paese cruciale (confina con Iran e Cina). Ciò significa investire ed essere presenti politicamente e diplomaticamente.

Non è tempo di ritirarsi?

Se da Isaf a Resolute Support la nostra presenza è stata fortemente ridimensionata – siamo arrivati a schierare oltre 4.000 uomini, oggi sono circa 800 –  è perché abbiamo rafforzato il Paese e il nostro addestramento ha permesso alle forze di sicurezza afghane di acquisire centralità. Il motto è “in together, adjust together, out together”: siamo nel momento adjust. Ci sarà ridimensionamento da parte degli Stati Uniti ma non potremo lasciare l’impegno in Afghanistan: è fondamentale garantire sostengo alle forze locali e al processo di pace.

Ora tocca gli afghani però.

Abbiamo sempre sostenuto i negoziati infra-afghani. E stanno per aprirsi per la prima volta, con anche i talebani presenti ai tavoli. È fondamentale un contesto inclusivo che comprenda sia vincitori e vinti delle elezioni ma anche tutte le comunità locali.

La strada per la pace e la democrazia è in discesa?

Gli afghani hanno conosciuto l’orrore della guerra e del terrorismo. Ma non è vero che la storia si ripeta e che certi Paesi siano condannati a una eterna conflittualità. Dobbiamo pensare che se noi ci impegnano le cose possono cambiare.

Ieri il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, in visita a Sant’Anna di Stazzema, luogo dell’eccidio nazista del 12 agosto 1944, ha sottolineato come la nostra civiltà democratica non sia “sorta dal nulla” ma è “nata perché chi ha conosciuto l’orrore ha promesso solennemente alle nuove generazioni che mai più quell’orrore si sarebbe ripetuto”. Serve in Afghanistan un impegno come fu quello degli Stati Uniti in Italia dopo la Seconda guerra mondiale? 

Gli Stati Uniti hanno adottato alla fine della Seconda guerra mondiale un approccio diverso rispetto a quello scelto quando si chiuse la Grande guerra. Non ci hanno lasciati soli. E i risultati sono evidenti da più di 70 anni.

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