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Coronavirus, quel che il Belgio non vuole imparare dall’Italia

Dopo una videoconferenza con i leader dell’Unione europea il 10 marzo, la Commissione europea ha deciso – finalmente – di portare avanti una “Corona Response Investment Initiative” di un valore totale di 25 miliardi di euro e diretta ai sistemi sanitari, alle Pmi, ai mercati di lavoro e ad altre parti vulnerabili delle nostre economie. Parte anche un coordinamento delle misure attraverso i paesi dell’Unione, con una conferenza telefonica giornaliera con i ministri sanitari e degli interni, e l’insediamento di un team di epidemiologi e virologi dei vari stati membri per la creazione di linee guida europee.

Si può solo sperare che non sia troppo tardi, e da cittadina europea che vive da anni in Italia ma ha i suoi diretti familiari sparsi dal Belgio a Danimarca a New York vi spiego perché. Mentre il coronavirus occupa la stampa e le menti italiane da oltre un mese, ho guardato con stupore, incredulità e anche impazienza le notizie che davano i media stranieri di quanto stava accadendo nel nostro paese, nonché la quasi “nonchalance” con cui veniva raccontata questa “anomalia” italiana di cui si credevano immuni. Quando nelle discussioni con parenti e amici in Belgio cercavo di spiegare quanto stava accadendo, a partire dalla Cina all’Italia, c’era un continuo sottofondo di accuse di “panico infondato” e di derisione, emozioni rispecchiati nelle dichiarazione del governo e le notizie sui giornali. Si trattava di uno “show lontano dal loro letto” come dice l’espressione fiamminga, e al massimo la crisi italiana era dovuta alla “solita incapacità e esagerazione italiana”.

Ora, come tanti che hanno seguito sin dall’inizio lo sviluppo della crisi Covid-19 in Cina, rimango convinta che le misure adottate in Italia sono state adottate con ritardo, e quando saremo usciti da questo tunnel ci saranno da fare tutte le verifiche in merito. Nel contempo però, è certamente imperdonabile che governi in altri Paesi membri dell’Unione europea sembrano non voler imparare niente di quanto sia accaduto qua, e stanno compiendo esattamente gli stessi errori mentre le curve statistiche della diffusione del virus stanno mostrando lo stesso decorso ovunque. L’esempio belga è emblematico.

Inizialmente, il Belgio ha adottato delle misure logiche, contenendo nella quarantena domiciliare chi tornava dalla Cina, e i casi di infezione sono rimasti strettamente legati a queste persone. La sfortuna vuole poi che lo scoppio dei focolai nel Nord-Italia coincide con le vacanze di carnevale, momento in cui tanti cittadini si recano nelle montagne per sciare. Al ritorno loro vengono invitati a rimanere a casa, i casi vengono di nuovo contenuti, ma da lì il decorso statistico comincia comunque a seguire quello degli altri paesi europei.

Nel bollettino giornaliero del Dipartimento di Sanità pubblica del 10 marzo leggiamo:

“Il 9 marzo, la rete del laboratorio nazionale di riferimento presso la KULeuven ha testato 443 campioni. 28 di essi sono risultati positivi al virus Covid-19 (17 nelle Fiandre, 3 a Bruxelles, 8 in Vallonia). Dall’inizio dell’epidemia, il numero totale di infezioni in Belgio è ora di 267.

La tendenza del weekend è continuato anche lunedì. Negli ultimi 3 giorni abbiamo rilevato rispettivamente 31, 39 e 28 campioni positivi al Covid-19. Attualmente non vi è un aumento esponenziale del numero di casi. L’afflusso iniziale di pazienti positivi al coronavirus dall’Italia settentrionale si è fermato e le persone malate sanno che è molto importante che restino a casa per prevenire la diffusione e proteggere il loro ambiente. In questo modo creiamo un ritardo temporaneo nell’aumento del numero di casi.

Tuttavia, esiste ormai una diffusione locale sul nostro territorio e nuovi casi verranno rilevati anche nei giorni seguenti.

Infatti, oggi 11 marzo, il bollettino sui dati del 10 marzo conferma: 639 campioni testati, 47 positivi (29 nelle Fiandre, 7 a Bruxelles e 11 in Vallonia), per un totale di 314 casi accertati. È anche il giorno della prima vittima del virus, un uomo novantenne. Aggiunge il bollettino: “Vediamo di nuovo un aumento nel numero dei casi. I nostri ospedali vedono anche un numero crescente di persone con infezioni del tratto respiratorio inferiore. Probabilmente questo indica l’inizio di una vera epidemia nel nostro paese.”

Di conseguenza, da una settimana i toni nei media e nei contatti personali sono cambiati radicalmente. Le immagini della terapia intensiva in Italia e dell’infermiera Elena Pagliarini nell’ospedale di Cremona sono apparsi fissi sulle prime pagine online delle principali testate. Il nervosismo cresce e lo show non è più così lontano dal loro letto. Dall’incredulità con cui guardavano all’Italia fino ad una settimana fa, ora cominciano ad alzarsi sempre più voci per l’adozione di misure simili. Amici mi chiedono, anche se non ci sono istruzioni tali per ora, se forse sarebbe giusto che anche loro evitino le strette di mano, i baci, gli abbracci. Giungono notizie di uffici pubblici che chiudono al pubblico, uffici privati che invitano chiunque si sente malato di rimanere a casa, ma rimangano misure disperse su iniziativa di ciascuno. Ed ecco che si crea uno scenario tra i cittadini molto conosciuto agli italiani: l’incertezza e la difficoltà di decidere tra i doveri del lavoro e sociali e la propria paura per se stessi e i cari.

Poi, il 10 marzo il Consiglio di Sicurezza nazionale finalmente vara delle misure nuove. Si sconsigliano i raduni di più di 1000 persone all’interno. Le persone che appartengono a gruppi a rischio – anziani e persone con cattive condizioni di salute – sono comunque consigliate di evitare grandi eventi. Le aziende e i dipendenti sono invitati a continuare il lavoro, ma a lavorare il più possibile a casa. Per le persone malate viene concesso in modo eccezionale la possibilità di ottenere una lettera di assenza di lavoro dopo consultazione medica telefonica. Le scuole rimangono aperte, ma si suggerisce di rimandare le gite scolastiche. E le visite scolastiche alle case di riposo non sono raccomandate per impedire che le persone con più di 80 anni, il gruppo più vulnerabile, si ammalano.

Trattasi per tutte queste misure però di “raccomandazioni”, non di divieti. E, come denunciano gli esperti e gli operatori ospedalieri, questo non crea altro che incertezza e grande divergenza nell’adozione di misure concrete. Adozione che viene lasciato ai governatori di provincia e ai sindaci, con la conseguenza che ad esempio il sindaco di Anversa, Bart De Wever ha già annunciato che non implementerà la raccomandazione di cancellare gli eventi con oltre 1000 persone all’interno, perché “ad Anversa posso evitare eventi soltanto sulla base di una misura chiara e oggettiva che viene imposta dal governo federale, non sulla base di una raccomandazione”.

E immediatamente anche il settore privato del divertimento si dedica all’adozione di soluzioni creative in pieno stile belga:

La discoteca Versuz a Hasselt annuncia che da questa fine settimana in poi saranno ammesse solo 950 persone, dove normalmente ne possono entrare 3.300. “Conteremo le persone alla porta,” afferma il responsabile Frederic De Gezelle. Anche gli organizzatori del musical Mamma Mia nel teatro della città di Anversa hanno dichiarato che cercheranno di limitare il pubblico al “numero simbolico di 999 persone”. E la sala concerti Vooruit a Gent ha deciso con effetto immediato di limitare la capacità delle attività pianificate a 950 persone, chiudendo i balconi nella sala da concerto.

Il virologo Marc Van Ranst reagisce con durezza: “Queste sono le tipiche soluzioni creative e ciniche dei belgi, scendendo a malapena sotto la soglia pensando che così andrà tutto bene. Quel limite di 1000 persone non è abbastanza rigoroso. Non ci aiuterà a fermare la diffusione del virus. Ma quanto si possa essere stupidi? Ora il Vooruit metterà 950 persone in uno spazio ancora più ridotto. Perfetto per la diffusione rapida del virus. Invece di dividere queste 950 persone sull’intero spazio disponibile in modo che ci sia almeno abbastanza distanza tra di loro… Le persone si rendono ancora troppo poco conto della gravità della situazione. Manca il senso civico. In realtà dovremo evitare tutte le attività in cui giovani e persone anziani stanno vicini”.

Il gabinetto del ministro federale della Sanità Maggie De Block difende il limite di 1000 persone per un’attività all’interno: “Il limite non è stato scelto in modo casuale. Sappiamo da esempi dall’estero che questo limite aiuta sicuramente nella lotta contro la diffusione del virus. Gli organizzatori che limitano il pubblico a 999 persone agiscono correttamente rientrando nella norma. Se avessimo voluto che si unissero un minor numero di persone, avremmo raccomandato uno standard più nitido”.

Il virologo Van Ranst solleva ancora: “Quando appare un nemico comune, e si antepongono interessi economici, è deplorevole. Che senso abbia poi raccomandare alle persone di lavorare da casa durante la settimana, quando nel fine settimana si possono radunare in massa alle partite di calcio? Invece di fare delle raccomandazioni sarebbe molto meglio varare delle misure concrete che valgano per tutti”.

Domande più che lecite, vista l’attuale disponibilità dichiarata di un totale di 150 letti ospedalieri disponibili per le cure in quarantena delle persone colpite del coronavirus. Solo il 9 marzo scorso lo stesso Ministro federale della Sanità aveva dichiarato che bensì non c’era attualmente bisogno di ulteriori misure o quarantene più stringenti come in Italia, “ci dobbiamo preparare ad una eventuale fase successiva come in Italia”.

La domanda è: che si aspetta di imparare delle lezioni dell’Italia in queste ultime settimane? Non si tratta di un paese lontano e con un sistema radicalmente diversa – e perlopiù inaffidabile – come la Cina. Sembrano difficilmente perdonabili i ritardi nell’adozione di misure adeguate e tempestive nei paesi membri dell’Unione europea quando 60 milioni di persone all’interno dell’Unione europea stanno così chiaramente subendo le conseguenze di un’emergenza sanitaria.



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