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La carezza di Papa Francesco all’umanità smarrita

Solo. In Piazza San Pietro. Papa Francesco era da solo questa sera, come tutti noi. Era solo in mezzo al colonnato del Bernini e quelle colonne sono diventate davvero il suo abbraccio urbano e mondiale, un abbraccio fraterno alla città e al mondo. Un mondo impaurito, smarrito davanti alla prima pandemia globale nel tempo della globalizzazione, la pandemia che in mezza giornata arriva da un capo all’altro del mondo, in aereo, e travolge confini, area geografiche, difese, barriere. La meteorologia ha voluto che la sua meditazione sul mondo ferito, smarrito, si svolgesse interamente sotto la pioggia, come si trattasse del pianto composto e sgomento del mondo che cerca di ascoltare e capire cosa, come, perché.

Ma davanti a queste fitte tenebre che si sono impossessate di ciascuno di noi “ci siamo resi conto di trovarci sulla stessa barca, fragili e disorientati”, “tutti chiamati a remare insieme”. È stato questo il primo chiarissimo messaggio a ciascuno di noi. A differenza di altri il papa non ha evocato la retorica della guerra, così bella, così forte, così facile. No. Non siamo in guerra, non c’è nessuno nemico esterno, non c’è uno contro tutti o tutti contro tutti. La salvezza piuttosto sta nel riscoprirsi insieme, uniti, come gli apostoli che nella tempesta chiedono a Gesù: “non ti interessa di noi?” Siamo perduti, dicono gli apostoli nel brano evangelico, e in questi giorni chi non ha pensato, o temuto, di esserlo? Siamo sulla stessa barca, dice il papa. Insieme ci salveremo.

E più avanti il suo discorso di fratellanza e di amore è diventato anche un monito, preciso, chiarissimo. “La tempesta smaschera la nostra vulnerabilità e lascia scoperte quelle false e superflue sicurezze con cui abbiamo costruito le nostre agende, i nostri progetti, le nostre abitudini e priorità. Ci dimostra che abbiamo lasciato addormentato e abbandonato ciò che alimenta, sostiene e dà forza alla nostra vita e alla nostra comunità”.

Servivano a questo, a ricordare che apparteniamo a una comunità e a una storia, tutti quanti, l’icona della Salus Populi Romani e il crocifisso di San Marcello al Corso, con cui i romani pregarono al tempo della peste. Il papa li ha voluti con sé, accanto al portone d’ingresso della sua San Pietro, chiesa romana, cattedrale del mondo. L’icona e il crocifisso dicevano che c’è per tutti una storia, una comunità: i popoli sono storia che cammina…

Ma il messaggio, il richiamo, la supplica di Francesco non era finita: “La tempesta pone allo scoperto tutti i propositi di imballare e dimenticare ciò che ha nutrito l’anima dei nostri popoli: tutti quei tentativi di anestetizzare con abitudini apparentemente salvatrici, incapace di fare appello alle nostre radici di evocare la memoria dei nostri anziani, privandoci così dell’immunità per far fronte all’avversità”.

È dunque caduto il trucco di “quegli stereotipi con cui mascheravamo i nostri ‘ego’ sempre preoccupati della propria immagine; ed è rimasta scoperta, ancora una volta, quella benedetta appartenenza comune alla quale non possiamo sottrarci: l’appartenenza come fratelli”.

Francesco ha un pensiero per l’oggi, per le vittime, per i malati, per chi eroicamente li cura, per tutti noi. Ma già sa guardare avanti, invitandoci a guardare avanti. C’è una lezione da imparare per rialzarsi. “Non ci siamo fermati davanti ai tuoi richiami, non ci siamo ridestati di fronte a guerre e ingiustizie planetarie, non abbiamo ascoltato il grido dei poveri, e del nostro pianeta gravemente malato. Abbiamo proseguito imperterriti, pensando di rimanere sempre sani in un mondo malato”.

Dunque la meditazione sul coronavirus è stata la meditazione sulla necessità di abbracciare il mondo perché veda la via della salvezza non nel ritorno a come eravamo ma nei due pilastri del suo pontificato che vuole costruire un altro domani: la Laudato si’ e il documento sulla fratellanza umana. Senza abbandonare l’idea scellerata di poter dominare la natura, di poterla piegare ai nostri sempre crescenti fabbisogni di risorse, e senza la consapevolezza che le civiltà e gli uomini sono uniti nella fratellanza, non ricadremmo nello stesso disastro anche ne uscissimo oggi?

Il papa solo osserva il mondo, osserva i suoi fratelli nell’umanità, prega per loro nell’abbraccio che sempre dovrebbe accomunare i fratelli, pur nelle loro diversità, a tutela delle loro diversità. È provato, affaticato dagli scalini che ha percorso da solo, a piedi. Rivolge un saluto di incoraggiamento agli operatori sanitari, ai volontari, a chi cura gli indigenti, agli anziani, ai bambini, poi ai politici, a chi è chiamato a scelte difficili. Poi è salito in Basilica. È stato il momento più alto, culminante, di una preghiera che non ha seguito formule, abitudini: un momento unico, come quello che il mondo vive. L’Altissimo è posto all’ingresso, sotto l’altare si vede enorme una scritta: 11 ottobre 1962. È il giorno del discorso più famoso, fino ad oggi, di un papa, il discorso della luna di Giovanni XXIII. Il discorso della carezza. “Tornando a casa troverete i vostri bambini: date una carezza ai vostri bambini e dite loro: è la carezza del papa”. Francesco era solo, ma la sua carezza era per tutti, a cominciare dai bambini. Ovviamente. Una carezza che è giunta sul fare della sera del 27 marzo 2020, prima della benedizione. Una data che sarà bello per tutti ricordare anche se nessuno potrà dire ai suoi figli, “io c’ero”. Ma potrà dire, “quella carezza era per me, era per te, era per noi.


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