Il New York Times ha fatto un lavoro video formidabile e ha montato tweet e filmati dai media governativi cinesi e dagli account dei diplomatici di Pechino e analizzato cosa dice la Cina al mondo della pandemia prodotta dal nuovo coronavirus.
[THREAD] Our latest @nytimes video: what is China telling the world about the Covid-19 pandemic?
We took a deep dive into thousands of tweets from China’s state media and diplomats’ accounts, and analyzed them to provide some clarity.
Our findings?https://t.co/KZ7iGv4pdgpic.twitter.com/eExy73bTRZ
— Muyi Xiao (@muyixiao) March 18, 2020
La propaganda revisionista con cui la Cina sta cercando di riscrivere la storia della crisi è ormai un genere letterario, con tanto di filoni: c’è la linea soft e più sofisticata usata per esempio nel caso del supporto all’Italia, c’è quella più aggressiva messa in campo contro gli Stati Uniti, c’è il sottogenere tecnico del contenimento della diffusione di pensieri critici come censura interna, per esempio. Un’operazione che negli anni ha visto Pechino investire miliardi in attività di pr in giro per il mondo con cui costruire l’immagine del Paese, il cui motore gira adesso – in fase di emergenza – a massimo regime.
Il tema generale che caratterizza tutta la diffusione cinese riguarda il sottolineare la capacità cinese nel rispondere all’emergenza sanitaria, evidenziare il lato positivo nella sfortuna, innalzando l’efficacia degli sforzi compiuti nella lotta al virus. Nella propaganda cinese, si chiama “zheng neng liang 正 能量”, ed è fatta massima attenzione nell’eludere qualsiasi genere di responsabilità – dall’aver creato le condizioni per la trasmissione/creazione del nuovo coronavirus a quello ben più preoccupante dell’aver negato la sua diffusione, cercando di oscurarla fino all’ultimo per proteggere l’immagine di potenza che il PCC adesso vuole proiettare nel mondo della Cina.
Su questo campo non vengono create false narrazioni, ma si evitano di rappresentare le critiche che la Comunità internazionale ha abbinato alla risposta di supporto offerta a Pechino. È quello che la Polizia di Internet fa all’interno del paese: chiunque degli 800 milioni di utenti domestici online posta in un social network qualcosa di negativo sulla Cina finisce sotto la lente della censura, costretto a ritrattare.
Altro aspetto della comunicazione imposta dal governo cinese è quello su cui è scivolata anche l’Italia. Mentre finora la Cina è stata beneficiaria della cooperazione internazionale, al più un partner, in questa fase si sta costituendo il ruolo di leadership. E il governo di Roma s’è esposto a questa narrazione, che è parte della volontà del segretario del Partito comunista cinese. Il capo dello Stato Xi Jinping ha infatti in mente per il Paese che guiderà a vita un futuro da potenza di riferimento. La Cina adesso è descritta come un leader altruista che dona conoscenze e aiuti agli altri paesi in difficoltà. A questo si abbinano le notizie sul superamento della crisi: è di oggi la notizia diffusa da Pechino riguardo all’assenza di nuovi casi cinesi, se non quelli riportati dall’esterno. Queste informazioni diventeranno nelle prossime settimane sempre più difficili da verificare, anche perché la Cina ha deciso di espellere diversi giornalisti appartenenti ai più qualificati media americane e internazionali.
La parte più spudorata della narrazione riguarda la creazione del virus. Sono la percentuale minore dei tweet in senso generali, ma la loro diffusione segue canali profondi, rimbalzi continui e attecchisce tra l’incertezza, il caos e l’ignoranza, la necessità di avere risposte da parte della popolazione mondiale su quello che è successo e sta succedendo. Qui l’operazione diventa più sofistica perché non è più in forma di megafono, ma prende vento dalle interazioni che si generano tra gli utenti dei social network – e sfrutta un sostrato noto: la facilità con cui circolano sparate le notizie alterate rispetto a quelle più ragionate.
Su questo filone la propaganda cinese cerca di colpire gli Stati Uniti – concorrenti per la leadership globale che vuole Xi, e non a caso unici destinatari di messaggi negativi, mentre con tutti gli altri paesi Pechino cerca di coltivare la classica armonia strategica. Il Nyt è riuscito a ricostruire da dove l’attacco frontale agli Usa è iniziato. Si tratta di una dichiarazione del direttore del CDC americano sul primo caso di coronavirus individuato negli Usa: era gennaio dice il funzionario del governo statunitense, e Lijan Zaho usa quelle parole per twittare: “È possibile che militari statunitensi abbiano portato il virus a Wuhan”. Lijan è il vicedirettore del dipartimento Informazioni del ministero degli Esteri cinese, ed è la voce operativa della propaganda. È lui per esempio che si è occupato di rilanciare il video del “Grazie Cina” dall’Italia, editato ad arte dal governo cinese e diffuso dalla sua superiore.
Il dipartimento Informazioni degli Esteri, guidato dalla portavoce Hua Chunying, è di fatto il motore di queste operazioni di info-war. Poi sono soprattutto le ambasciate che diffondono il messaggio – come già successo nel caso della disinformazione sulle proteste di Hong Kong, quando toccò a Roma ospitare la prima invettiva con cui Pechino incolpava gli americani di aver fomentato le rivolte. Ieri, per esempio, in un tweet fatto circolare dall’ambasciata cinese in Sudafrica, la feluca Lin Songtian, scagionava la Cina sulle responsabilità per le origini del virus: come dicono “fonte autorevoli” potrebbe non essere nato in Cina SarsCoV2, twittava il funzionario degli Esteri, e condivideva un editoriale con cui l’agenzia di stampa Xinhua denuncia gli americani per razzismo nei confronti dei cinesi. È evidente che Lin alludesse a responsabilità statunitensi nella creazione del virus.
Negli ultimi giorni da Washington è partita una controffensiva, passata anche dall’iniziare a chiamare il SarsCoV2 come “Wuhan virus”. Lo ha fatto per esempio l’altro ieri il segretario di Stato, Mike Pompeo, per sei volte durante una conferenza stampa da Foggy Bottom. Pompeo ha usato i termini per spingere una contro-narrazione e ricordare al mondo che l’epidemia è originata nella città centrale dell’Hubei, non senza responsabilità del governo cinese; la propaganda di Pechino le usa per accusare gli americani di razzismo. Elemento ricorrente, anche perché spesso ci sono stati episodi di generalizzazione deleteria (sganciare l’azione del governo, ossia del partito, da quella dei cittadini diventa esercizio fondamentale in queste fasi).
I am not surprised to see the US plays the blame game. Authoritative sources made it clear that the coronavirus is neither originated from China, nor “made in China”. The scientists have the final say. https://t.co/BqNKu0KQ44
— Chinese Ambassador to South Africa (@AmbLINSongtian) March 18, 2020
Oggi l’account Twitter dell’ambasciata cinese in Brasile ha attaccato il presidente Jair Bolsonaro, di recente tornato da un incontro con Donald Trump: dopo alcune dure dichiarazioni sulla Cina fatte dal figlio, l’avamposto diplomatico di Pechino scrive che “al suo ritorno da Miami [Bolsonaro], purtroppo ha contratto un virus mentale, che sta infettando le amicizie tra i nostri popoli” — l’accusa di seguire “le abitudini dei suoi cari amici” si mescola con il fatto che due uomini della delegazione brasiliana in Usa sono risultati positivi al coronavirus.