Col senno di poi è tutto più facile, lo sappiamo. È un errore di ragionamento retrospettivo che commettiamo tutti, si chiama hindsight bias. In italiano, esattamente “bias del senno di poi”. In breve, è quello che ci fa pensare di aver saputo o capito sempre tutto prima degli altri: “Lo sapevo, ve l’avevo detto!”, ma solo una volta che gli eventi sono accaduti. Tuttavia, esiste anche un proverbio che dice “del senno di poi, son piene le fosse”. Saggezza popolare…
Faccio questa premessa prima di tutto per me stesso. Come tutti, in questi giorni sto cercando di mettermi nei panni di chi ha il potere e l’onere di decidere delle nostre vite, della nostra libertà, della nostra salute (anche mentale). Per comprendere appieno certe situazioni complesse, bisogna viverle. E nessuno di noi le sta vivendo nella “situation room”, in quella stanza dei bottoni governativa che ogni giorno deve valutare e decidere il da farsi, sotto pressione emotiva, psicologica e temporale. Alcuni di noi, però, hanno vissuto in passato quelle dinamiche, quei ritmi, quelle tensioni all’interno della stanza dei bottoni. Non per un evento del genere – è di fatto inedito – ma per situazioni di crisi o di emergenza che comunque generano risposte e avviano processi simili.
Io sono tra questi. Proprio per questa ragione cerco di “mordermi la lingua” tante volte, di evitare una valanga di post critici e tutta una serie di “ve l’avevo detto!”. Perché è troppo facile. E perché mi rendo conto della complessità insita nella gestione di una crisi di tali proporzioni.
Tuttavia, un po’ di cose si possono dire. Sia in termini di decisioni politiche, sia di strategia comunicativa (se di strategia si può parlare, in una fase carica di improvvisazioni anche obbligate).
Sulle prime, tuttavia, non ho gli elementi che posso avere sulle seconde e dunque mi limito a sottolineare solo alcune cose. La prima è che stiamo vantandoci di un “modello Italia” che forse tanto modello non è. Lo dicono, amaramente, i dati sui contagi e sulle vittime. Ma lo dicono anche le scelte fatte. Nessuno è arrivato a prendere decisioni restrittive come le nostre. O meglio, forse lo ha fatto la Cina, ma isolando soltanto la regione di Hubei e rispondendo con l’efficienza e l’efficacia che solo un regime non liberaldemocratico può mettere in campo, in termini di sorveglianza e di opere pubbliche (vedi ospedale a Wuhan in pochi giorni). La Corea, che in base ai dati mi sembra il vero “modello”, non è arrivata a scelte restrittive, di contenimento di intere aree. Ha individuato e tracciato le persone infette con uno screening di massa (tamponi) e poi ha provveduto a isolarle. Senza “chiudere” città, regioni, attività. Finora ha funzionato alla grande. Insomma, la nostra risposta “a tappe” non sembra essere la migliore. Ma tireremo le somme alla fine, anche tenendo conto di sistemi politici diversi e di culture politiche e civiche diverse. Tutto l’estremo Oriente, dati alla mano, funziona. Mentre la cara vecchia Europa dei diritti e delle libertà sembra ormai tutta un focolaio del coronavirus. Ci rifletteremo, “col senno di poi”…
Tuttavia, occorre miscelare i ragionamenti sulle scelte politiche con quelli connessi alla comunicazione. La comunicazione è politica, nel senso che genera conseguenze, spesso più importanti delle stesse decisioni normative (a titolo di esempio, si veda l’ormai famigerato decreto che col solo annuncio ha riempito stazioni e treni, generando l’effetto opposto a quello desiderato).
Ora, è facile (col senno di poi) dire quali annunci abbiano avuto effetto positivo e quali invece siano stati “catastrofici”. E dunque su quelli non dirò nulla. Vorrei invece aggiungere una riflessione su una questione che mi pare stia montando nel Paese. E cioè che la forma è sostanza, quando si comunica. Riti e simboli contano. E dunque, parlare alla nazione dandole appuntamento su Facebook comincia a sembrare una nota parecchio stonata. Le prime volte, con misure restrittive minime, quarantene appena iniziate e dati non così scoraggianti, poteva anche andare… abbiamo visto meme sulle “bimbe di Conte” nuovo sex symbol, abbiamo visto locandine de’ “Il Decreto” come fosse una soap opera… Ma ora il contesto è cambiato, profondamente. È mai possibile che il messaggio alla nazione di Capodanno, da parte del Presidente della Repubblica, venga trasmesso a reti unificate, mentre questi annunci di “misure di guerra” avvengano su un social network? Con le Tv (anche quella di Stato) costrette a collegarsi su Facebook?
Giuseppe Conte ha detto “lo Stato c’è, lo Stato è qui”… ma lo ha detto su una piattaforma privata della Silicon Valley, pur avendo la Rai e tutte le emittenti private (ma italiane) a disposizione. La diretta Facebook può essere aggiuntiva, non sostitutiva. Lasciamole l’esclusività per i concerti sui balconi e per le nostre ricette da quarantena. Anche per i mojito e tutta la propaganda da campagna permanente in tempi “normali”. Ma non lasciamole il primato anche nello “stato di eccezione”.
A proposito di forma e sostanza, si potrebbe dire qualcosa anche sui ritardi e sulla scelta di fare annunci notturni. Abbiamo visto – sempre su Facebook – una conferenza stampa alle 2.20 di mattina, tecnicamente senza senso. Ma sorvolerei su questo per concentrarmi su un aspetto più qualitativo, cioè sui messaggi.
Il problema vero di queste nottate ansiogene de’ “Il Decreto” è proprio insito nel messaggio. Perché risulta debole (e dannoso) sia dal punto di vista informativo che dal punto di vista psicologico. In tema di informazioni, ogni messaggio ormai genera più dubbi che certezze. Cosa è aperto e cosa no? Fino a quando? Dove posso leggerlo e documentarmi? Da nessuna parte perché il decreto è solo annunciato… E che senso ha annunciarlo e basta, sapendo che ogni effetto-annuncio genera conseguenze reali? Cioè aumenta incertezze e viralizza panico?
Inoltre, sempre in tema di psicologia sociale, occorre concentrare l’attenzione sul codice , sul registro e sullo stile di comunicazione. Conte ormai spesso parla in prima persona (“ho deciso”, “ho fatto”, “ho promesso”), il Parlamento è praticamente chiuso e procediamo con Dpcm (Decreti del presidente del Consiglio dei ministri), il capo dello Stato (“lo Stato è qui”…) è sparito dai radar, nonostante sia il rappresentante dell’unità nazionale. Insomma, l’unica emittente autorevole, “lo Stato” nel percepito di massa, è Conte. In questo grande, a tratti epico, racconto nazionale egli è il nostro eroe. Ragion per cui, diventa fondamentale che il presidente del Consiglio adotti un codice comunicativo e narrativo efficace, convincente e soprattutto autorevole. E invece, a mio avviso, non ci siamo. Il “buon padre di famiglia” che emerge risulta troppo “all’italiana”, con un evidente tratto paternalistico e solidale verso i nostri sacrifici, le nostre rinunce, il nostro coraggio. È una linea tra le tante possibili, ma non è la linea del “Commander in chief”. Certo, deve svolgere anche una funzione rassicurante, da mental coach, ma deve farlo con l’autorevolezza e la certezza di ciò che ci comunica, di come lo comunica e dei suoi effetti.
Non sto dicendo che l’alternativa sia De Luca coi lanciafiamme o il sindaco di Gualdo Tadino che urla “teste di cazzo” a chi non resta in casa. L’alternativa, ad esempio, è il ministro della Difesa israeliano che dice: “Nulla è più letale di un abbraccio tra nonna e nipote” e chiude il video-messaggio con “questo è il piano. Abbiate cura dei vostri nonni, non andategli vicino”. Dice anche tutto il resto, la quarantena, il distanziamento sociale, ecc., ma passa in secondo piano. Diventa rumore di fondo, perché il messaggio vero è uno. E non è sacrificio, forse neanche responsabilità. È semplicemente amore per i propri cari. Ma detto non con toni “melodrammatici”, con voce e occhi bassi. Detto in maniera piatta, autorevole, stentorea: “Vuoi bene ai tuoi, stanne lontano”. Te lo dice il “comandante”.
Chiaramente, i problemi di comunicazione non riguardano solo la presidenza del Consiglio. Tutta la nostra governance multi-livello ne è colpita. Stato, Regioni e Comuni sono stati (e sono ancora) troppe volte “l’un contro l’altro”. E un sistema dell’informazione che spesso non aiuta e sta contribuendo non poco a peggiorare il percepito di massa. Va bene l’aggiornamento quotidiano con la conferenza stampa della Protezione Civile. Vanno bene le comunicazioni di Conte (meglio se riviste nei termini su indicati). Va meno bene che ogni emittente, a tutte le ore, mandi in onda speciali sul coronavirus che non aiutano certo la resistenza psicologica di un popolo in quarantena. Peraltro, spesso tali trasmissioni sono inutili anche dal punto di vista informativo: per ragioni di pathos e di interesse di un pubblico spaventato, ruotano su una sola domanda: “Quando arriva il picco?”. E quella domanda è inutile, perché nessuno lo sa. È uno scenario con troppe variabili. In compenso, avere sempre davanti agli occhi e nelle orecchie questo maledetto virus ingigantisce le paure. Perché non parliamo d’altro, monopolizza l’agenda. Inoltre, andrebbe cambiato l’ordine di presentazione dei dati. Se cominciamo a riferire prima il numero dei guariti e poi quello dei morti, male non fa…
Infine, questo stillicidio h/24 monotematico contribuisce a generare incertezza anche perché manda in video decine e decine di medici non sempre concordi (l’abbiamo visto fin dal principio). Per chi fa scienza di mestiere, è normale assistere a teorie in competizione. È assolutamente fisiologico. Ma per un popolo spaventato, no. Diventa decisamente patologico. Perché se “neanche i dottori sono d’accordo tra loro”, allora tutti hanno la stessa credibilità. E a quel punto, senza un campo magnetico certo e con la bussola impazzita, ci si può fidare anche del vocale che ci arriva da chissà chi, su Whatsapp.
Stiamo vivendo un tempo imprevisto e maledetto. Non eravamo preparati, neanche lontanamente, ad affrontarlo, così presi da non-notizie (ir)rilevanti e da gratificazioni narcisistiche tipiche di chi proprio non si aspetta un “cigno nero” di tale portata. E, sempre per citare Nassim Nicholas Taleb, abbiamo scoperto di non essere così antifragili e neanche così robusti. Ma c’è una cosa che “il senno di poi” ci può insegnare: apprendere dagli errori. Che, per inciso, è anche l’essenza del metodo scientifico.