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Il coronavirus spaventa l’Africa. La testimonianza dei missionari

Assieme al numero dei contagi, cresce in Africa anche la preoccupazione. Ad oggi, i casi accertati sono 633 in 33 paesi, come certifica su Twitter il dipartimento africano dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. La situazione sanitaria a dir poco incerta, e la debolezza dell’organizzazione, fanno pensare che se la pandemia dovesse continuare ad espandersi con maggior violenza anche nel continente nero, i rischi sarebbero tanti. E alti. Nei giorni scorsi l’Oms ha fornito ad alcuni Paesi attrezzature e strumenti per individuare e gestire il virus. Ma i timori restano e i tanti missionari che operano sul territorio africano, purtroppo, non possono che confermarli.

“Fino a pochi giorni fa se ne parlava come qualcosa di lontano e che interessa solo altri Paesi. La situazione però è cambiata rapidamente e radicalmente da quando è stata dichiarata la pandemia. Dopo il primo caso di Coronavirus a Nairobi, la preoccupazione è aumentata fortemente”, ci spiega fratel Beppe Gaido (nella foto), religioso torinese nella comunità dei Fratelli di San Giuseppe Cottolengo, in Africa dal 1997, dove a Chaaria, in Kenya, poco alla volta ha trasformato un dispensario in un ospedale, il Chaaria Hospital, di cui oggi è il direttore.

LA MANCANZA DI STRUTTURE SANITARIE IN KENYA

“In Kenya è stato predisposto un reparto per coronavirus con un numero limitato di letti a Nairobi, ma il problema che si affronta è la mancanza di preparazione, e un sistema sanitario altamente carente, con strutture ospedaliere fatiscenti o poco attrezzate. Non abbiamo la possibilità di fare diagnosi, se non sospettandola e poi riferendo il paziente a Nairobi. Gli ospedali missionari sono congestionati e non hanno grosse possibilità di isolamento”. Da luglio, fratel Beppe si trova al Saint Orsola Mission Hospital di Matiri, in una zona rurale. Tra i principali problemi da affrontare c’è la disponibilità di ossigeno, o come far fronte alla rianimazione. “A Chaaria si produce ossigeno, ma i letti di rianimazione sono pochissimi e normalmente a pagamento, molto costosi. A Matiri invece abbiamo solo pochi concentratori di ossigeno”.

In generale, ciò che emerge è che “l’Africa è generalmente impreparata. Non ci sono rianimazioni, non abbiamo isolamenti ed il personale medico è gravemente insufficiente, come anche le medicine”. Una diffusione come quella europea implicherebbe contagi anche in ospedale, incapacità di assistere i pazienti gravi e tantissime morti sia tra i pazienti che tra il personale. “Qui non morirebbero solo gli anziani ma anche i tantissimi bambini denutriti o le persone immunodepresse. La mortalità sarebbe altissima”. In Kenya, di tamponi se ne sono fatti finora pochissimi, ed in un unico laboratorio a Nairobi. Ma il virus potrebbe essersi espanso meno anche perché in Africa, per motivi povertà, si viaggia pochissimo in aereo. E “i villaggi rurali sono lontanissimi l’uno dall’altro”.

I SERVIZI MINIMI NELLE TOWNSHIPS DEL SUDAFRICA

“Qui nelle townships i servizi sono minimi, sebbene nella nostra zona ci sia accesso ai centri sanitari. Tuttavia si nota che quelli gestiti dal governo sono inefficienti, mentre i privati lavorano bene”, ci spiega invece padre Luigi Morelli, missionario dei Padri Bianchi che vive nella cittadina di Merrivale, a Howick nel KwaZul-Natal, una provincia del Sudafrica, in un seminario con una quarantina di giovani, e insegna nel St Joseph’s Tehological institute, a Cedara. “Se l’Oms fornisce soldi, il pericolo è che i fondi vengano assorbiti, o quando peggio rubati, da funzionari e ministri dopo aver fatto qualche breve intervento a favore dei colpiti dal virus. C’è poca fiducia e collaborazione tra autorità e cittadini in molti Paesi del continente”, afferma padre Luigi.

“Forse ricordiamo il caso di persone impiegate in Sierra Leone o Liberia per arginare l’ebola. Le organizzazioni internazionali li hanno pagati attraverso il governo. Eccetto i capi, gli altri non hanno ricevuto niente. Hanno fatto sciopero, ma non si é saputo niente di come sia andata a finire”. Per questo, ci spiega con amarezza, “il coronavirus può creare delle situazioni simili”. Per quanto riguarda i tamponi, in Sudafrica lo screening è coperto dalla sanità pubblica in caso di positività. Altrimenti, la cifra è di 1400 rands, 140 euro circa. “Tra le fasce popolari pochissimi si metterebbero in coda per fare lo screening”.

LA SITUAZIONE DRAMMATICA IN BURKINA FASO

“Ormai siamo in un mondo globalizzato, quello che succede in un posto del mondo prima o poi arriva dall’altra parte. Sapevamo che sarebbe arrivato in Africa. Con la difficoltà di organizzazione del sistema sanitario, e della sorveglianza, c’è probabilità che la malattia si possa diffondere fortemente. La risposta che si può dare è abbastanza limitata”, è quanto ci dice invece padre Paul Ouédraogo, religioso camilliano, medico pediatra e direttore dell’ospedale San Camillo a Ouagadougou, in Burkina Faso. Ovvero uno dei Paesi più poveri del continente nero. Nella sua struttura transitano circa 1100 persone al giorno.

“In Burkina abbiamo tre ospedali attrezzati e riservati ai pazienti Covid19 secondo la strategia di risposta che è stata data. In un ospedale ci sono intorno a 10 posti letti e non c’è il personale competente per più di dieci letti. Significa che la capacità è intorno a 30 posti letto, più o meno. Per un Paese di venti milioni di persone, capisce che non possiamo reggere a lungo. Bisogna che qualcosa sia fatto per attrezzare altri ospedali e formare il personale per gestire i pazienti”, è il tragico appello di padre Paul. “Ora l’impegno maggiore è di dare la buona informazione, sensibilizzare, riprendere le misure di igiene di base, a livello personale e di ospedali. È vero che il problema è iniziato in Cina, poi è passato in Europa, ma se non si fa niente casca il castello e avremo anche qui dei casi. Bisogna darsi da fare seriamente e cercare tutti di collaborare”.

LA FEDE CHE SORREGGE IL CONTINENTE

Anche perché, conclude, “è vero che il problema è iniziato in Cina, poi è passato in Europa, ma se non si fa niente casca il castello e avremo anche qui dei casi”. A quel punto scoppierà la bomba, e la situazione diventerà molto difficile. Senza contare l’inflazione che ha fatto salire alle stelle il prezzo di prodotti come il gel per le mani, passato in tre giorni da mille a cinquemila franchi, ovvero da tre a quindici euro. Tuttavia, “il problema di Ebola ha già fatto avere meccanismi che sono ormai delle conquiste, dei riflessi acquisiti dalle persone che hanno imparato negli ospedali”.

Per quanto riguarda la vita religiosa, quella che tutti e tre descrivono è finora sostanzialmente immutata, eccetto le accortezze richieste come il lavaggio delle mani, lo svuotamento delle acquasantiere o la comunione in mano. Anche se è probabile che a breve arriverà una stretta anche su questo.  Si vocifera che l’interruzione delle Messe potrebbe riguardare le diocesi di tutto il mondo. Ma “l’anima africana è fondamentalmente religiosa, quando abbiamo un problema cerchiamo di rivolgersi a Dio prima dei medici!”, ci spiega in conclusione padre Paul. “La gente ha bisogno di pregare, radunarsi e fare processione, sarà quindi difficile interdire tutto. Anche in chiesa ci possono essere sempre maggiori accorgimenti, ma sarà difficile tuttavia, per esempio, fermare le celebrazioni delle altre religioni. La fede fa parte del vissuto di ogni problema, è inclusa nelle strategie per uscire dal problema!”. Speriamo che possa anche continuare a muovere le mani dei tanti missionari eroi che, nel silenzio, operano ogni giorno nel continente.


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