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Covid-19, ovvero il contagio dei contagi spiegato da Giannuli

Normalmente si pensa che la globalizzazione si riferisca solo alla dimensione internazionale dei processi che ormai riguardano l’intero “globo” (appunto) terrestre. Ma questo è un significato figurato, non letterale. Nella lingua italiana (e suppongo anche in altre lingue) globale sta per “totale” ed una cosa “considerata globalmente” sta per una cosa “considerata in tutti i suoi aspetti”. Dunque, la globalizzazione non va intesa solo nel suo senso figurato, ma anche in quello letterale, per il quale ha prodotto l’immediata interazione fra la sfera naturale, quella economica, quella sociale, quella politica, quella militare eccetera. Questo in parte è stato il prodotto della maggiore velocità dei processi di calcolo e di comunicazione: nel 1929, la caduta di Wall Street ci mise un po’ di settimane prima di produrre i suoi effetti in Europa e, dopo, in Giappone. Nell’ottocento una epidemia si estendeva dal punto di partenza agli altri continenti in parecchi mesi e talvolta in anni, oggi in una quarantina di giorni si è estesa dalla Cina ad un centinaio di altri paesi di tutti i continenti. Non è solo una questione di tempi: la maggiore lentezza dei processi dava modo di prepararsi in qualche modo ai fenomeni, mentre oggi è tutto così veloce che siamo sempre impreparati ed i processi marciano molto più veloci della nostra capacità di comprenderli. Quando crollò il blocco sovietico, il presidente ceco Václav Havel disse “è accaduto tutto così in fretta che non abbiamo avuto il tempo di stupircene”.

Riflettiamo su quel che sta accadendo: un virus ha prodotto un contagio biologico che non solo ha diffuso l’infezione (soprattutto grazie alla maggiore velocità ed economicità dei mezzi di trasporti), ma attivato un altro contagio, quello psicologico, perché il sistema di comunicazione mondiale ha riferito dell’espandersi della malattia nel mondo in tempo reale. A sua volta questo contagio della paura, insieme alle misure restrittive sugli spostamenti di uomini e cose, ha attivato il contagio finanziario: gli algoritmi calcolati velocissimamente dai programmi informatici hanno subito calcolato la caduta della domanda sul mercato mondiale, ma anche quella dell’offerta per la chiusura delle fabbriche cinesi, i conseguenti riflessi sul Pil dei diversi paesi ecc., per cui ne hanno scontato gli effetti immediatamente, causando la contrazione delle borse e la classica ricerca di beni rifugio. Questo, a sua volta si è tradotto in contagio dell’economia reale (già attivato dalla pandemia) con aziende che rischiano la chiusura, altre che bloccano la produzione per la mancanza di pezzi di ricambio dalla Cina ecc. E questo sta accendendo il contagio sociale: rischio di un boom della disoccupazione, caduta della domanda senza diminuzione dei prezzi, aumento del disagio sociale con rischio di sommosse (si pensi alla situazione delle carceri in Italia).

Ma una destabilizzazione sociale, ovviamente diversa da paese a paese, non può non determinare anche un contagio politico (sarà rieletto Trump se l’epidemia prenderà piede negli Usa? Resisterà alla prova il governo Conte in Italia? Si indebolirà la leadership di Xi Jinping in Cina? E in Iran? E se l’Iran dovesse andare verso forti rivolte interne, quale sarà l’atteggiamento di Usa, Arabia Saudita ed Israele? È casuale che Erdogan abbia scatenato l’arma immigrati contro l’Europa in concomitanza con l’epidemia? E una diffusione incontrollata dell’epidemia in Africa, potrebbe innescare anche conflitti armati?).

E ci sono altri due aspetti di cui non abbiamo detto: per le scelte prodotte dalla cultura neo liberiste, Cina ed India hanno di fatto il monopolio della produzione farmaceutica, ma la Cina oggi non è in grado di fornire il mercato dei prodotti richiesti nella quantità richiesta (aumentata anche dall’effetto paura che spinge a fare scorte) per la chiusura di molti stabilimenti, mentre l’India sceglie di ridurne l’esportazione per timore che l’epidemia possa produrre un forte aumento della domanda interna. Ovviamente questo complica le cose perché, per quanto non esistano, allo stato, farmaci che combattano l’infezione (salvo la sperimentazione di alcuni retrovirali usati per l’Aids), però la mancanza di specialità per altre patologia (comprese quelle salvavita) potrebbe tradursi in un ulteriore aggravio della situazione sanitaria degli altri paesi, con gli effetti immaginabili sul sistema ospedaliero. In secondo luogo, se anche si riuscisse a trovare un vaccino o un curativo adatto, dove dovremmo produrlo? In Cina ed India, con il ritorno del rallentamento delle esportazioni? Altrove? Dove?

E c’è un altro aspetto di cui ancora non si parla: l’effetto staffetta. Come si sa, i virus sono entità altamente mutanti che, non di rado, aumentano la loro aggressività (si “virulentano”) nel contagio da umano ad umano, per cui già oggi facciamo i conti non con uno ma con due virus, di cui il secondo potrebbe essere una mutazione più aggressiva del primo. E questo determina anche la possibilità che un soggetto guarito possa riammalarsi, ma c’è altro: l’effetto staffetta, per il quale, mentre l’influenza in corso sta declinando in Cina, vice versa è stabile in Corea del Sud e si sta rafforzando in Italia ed Iran. Quando, prima o poi (e speriamo prima) declinerà in questi paesi, potremmo avere una forte espansione in Africa, Germania, Francia ma soprattutto Usa, che sono il vero tallone d’Achille del sistema sanitario mondiale. Ed a questo punto, potrebbe tornare da questi nuovi mega-focolai verso i paesi che hanno superato l’infezione e così via.

Se così fosse, saremmo davvero alla “tempesta perfetta” che riproduce sé stessa.

Questa è molto più di una epidemia ed esige una capacità di pensiero sistemico di cui, purtroppo, non si scorgono le premesse sia fra i decisori che anche fra gli esperti.

Almeno dal punto di vista concettuale, dobbiamo alzare il passo.

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