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Coronavirus, perché è il momento di riformare il Ssn. L’indagine di Cimo-Fesmed

Di Guido Quici

La gestione dell’attuale emergenza sanitaria da coronavirus ha evidenziato in tutta la sua gravità, al netto dell’indiscutibile impegno e dei risultati sul campo di medici e sanitari, la vulnerabilità del nostro Sistema sanitario nazionale (Ssn) che sconta un decennio di tagli lineari, di mancati investimenti in risorse umane, di striscianti guerriglie tra le varie regioni ad iniziare dalla ripartizione del fondo sanitario nazionale, di modelli organizzativi troppo spesso autoreferenziali, di discutibili politiche del personale.

Di fatto la sanità italiana ha assunto, in questi anni, una connotazione a “macchia di leopardo” che non si è limitata alle sole regioni, ma si è estesa a tutte le aziende se non addirittura alle singole professioni tanto da disorientare gli operatori sanitari di fronte ad una situazione emergente, come l’epidemia da Covid-19, la cui complessa gestione necessita, invece, di una linea di indirizzo univoca senza nessuna “fuga in avanti”.

Come Cimo-Fesmed, sindacato dei medici, abbiamo ritenuto opportuno avviare una rapidissima indagine negli ospedali italiani chiedendo ai medici di tutte le branche specialistiche quale è la loro percezione rispetto ad alcuni strumenti di prevenzione che le aziende devono mettere a disposizione a tutela della propria sicurezza nel proprio luogo di lavoro. La percezione del singolo medico rappresenta infatti quell’elemento di valutazione che diventa essenziale perché evidenzia le difficoltà che i colleghi incontrano nelle strutture trovandosi in prima linea senza armi ma “solo” con le proprie competenze professionali.

L’indagine ha coinvolto in pochi giorni 450 medici che operano nelle strutture sanitarie italiane, ha interessato specialisti di tutte le branche mediche, chirurgiche e direzionali e, in alcuni casi, più medici della medesima struttura proprio per capire la percezione vista dal singolo operatore rispetto al proprio contesto lavorativo.

I DATI RACCOLTI

Il primo quesito riguardava la dotazione dei dispositivi di protezione individuale: ebbene solo il 26,9% ha risposto che la propria struttura sanitaria ne dispone a sufficienza, mentre il 20,2% ritiene che gli stessi DPI siano in dotazione solo presso i reparti a rischio.

tabella 1

Rispetto alla implementazione di percorsi interni specifici, seconda domanda, ben il 56% dei medici ha risposto in modo negativo, o ha affermato di non esserne a conoscenza (il 30,3%).

tabella 2

Analogo discorso, terzo interrogativo posto ai medici ospedalieri, sulle aree di isolamento per potenziali pazienti affetti da Covid-19, dove il 56,7% degli intervistati ha risposto di no (23,7%) o di non esserne a conoscenza (29,4%).

tabella 3

Sulla implementazione di specifiche misure organizzative nel Pronto Soccorso, quarta domanda, solo il 44% ha risposto in modo positivo.

tabella 4

Infine, alla domanda sul livello di informazione esistente all’interno della struttura ospedaliera, emerge, in modo chiaro, che solo il 17,8% ha fatto formazione e ha avuto informazione, che nel 14,2% dei casi sono stati coinvolti solo i responsabili di struttura e che nel 49,3% degli intervistati ha evidenziato l’assenza di iniziative aziendali.

tabella 5

Il test, che non pretendeva di avere una valenza statistica, si prefiggeva di cogliere come la situazione riguardante il Covid-19 fosse percepita dal personale medico. E le risposte fornite dimostrano, ancora una volta, che la sanità italiana non può andare avanti in queste condizioni, che l’autonomia differenziata, di fatto già in atto, non è in grado di fronteggiare possibili emergenze sanitarie; che la stessa crea insicurezza tra gli operatori sanitari e disparità di accesso alle cure. È allora davvero questa l’ultima occasione per rivedere seriamente il nostro servizio sanitario nazionale nell’ottica dell’accessibilità, uniformità e sicurezza delle cure.


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