Come viene gestita la “pandemia” a livello italiano? In momenti critici il federalismo sanitario può funzionare o in questi casi è lo Stato a dover prendere decisioni? Di questo ed altro, Alessia Amore ne ha parlato con il prof. Vincenzo Antonelli, docente di Diritto Sanitario all’Università Cattolica del Sacro Cuore.
La “tutela della salute” è, secondo la nostra Costituzione, una di quelle materie di competenza concorrente tra Stato e Regioni. Può spiegarci come ciò influisce sulla gestione dei servizi sanitari anche in una situazione di emergenza come quella che stiamo vivendo?
Per comprendere l’organizzazione dei servizi sanitari nel nostro Paese bisogna distinguere il piano normativo da quello gestionale. Sul piano normativo spetta allo Stato definire con legge i principi fondamentali del sistema sanitario e alle Regioni darne attuazione. Scelta già presente nella Costituzione del 1948 e rafforzata con la riforma del titolo V del 2001. Sul piano dell’offerta dei servizi sanitari, l’erogazione e l’organizzazione dei servizi sanitari è rimessa a partire dal 1992 alle Regioni dopo il fallimento della gestione comunale delle Usl. Bisogna ricordare che il servizio sanitario non è mai stato “statale” ovvero svolto direttamente da amministrazioni statali, neanche con il precedente sistema mutualistico. Dunque, le Regioni attraverso le aziende sanitarie rappresentano il livello di governo chiamato ad assicurare in via “ordinaria” le prestazioni sanitarie alle persone. Circa l’80% del bilancio di ciascuna Regione è, difatti, oggi finalizzato alla spesa sanitaria.
Aspetto diverso è l’erogazione dei servizi sanitari in caso di emergenza. Il carattere straordinario dell’epidemia giustifica l’intervento statale ed in particolare l’attivazione del sistema nazionale della Protezione civile, chiamata quest’ultima non a sostituirsi alle strutture sanitarie regionali, ma ad assicurare loro un supporto, un “aiuto”, facendosi carico di tutti quei problemi che non possono essere affrontati adeguatamente dalle singole regioni, come ad esempio gli approvvigionamenti di medicinali e dispositivi medici, l’allestimento di nuove strutture ospedaliere, l’apporto di personale sanitario.
È possibile che nella gestione della pandemia da coronavirus si allarghi il divario con il Sud Italia?
L’emergenza sanitaria che stiamo vivendo ha fatto emergere ancor di più il divario esistente tra Nord e Sud del Paese. In primo luogo l’esodo dei “rientranti” a seguito della chiusura delle Università, delle fabbriche, degli uffici pubblici del Nord ci ha fatto prendere atto di un consistente, e forse volutamente dimenticato, flusso migratorio interno al Paese e allo stesso tempo delle connessioni ed interdipendenze esistenti tra le diverse “parti” dell’Italia. Il nostro non è un Paese “a compartimenti stagni”. In secondo luogo stiamo registrando un divario per quanto riguarda la capacità di risposta dei diversi servizi sanitari regionali. Non possiamo trascurare il fatto che l’epidemia abbia interessato ad oggi prevalentemente la Lombardia, il Veneto e l’Emilia-Romagna. Si tratta delle regioni che hanno i sistemi sanitari più all’avanguardia ed efficienti rispetto al resto del Paese. Basta pensare che la Lombardia dispone “in via ordinaria” di circa 900 terapie intensive rispetto alle 300 attive in Sicilia.
Ma quello che sta emergendo ancor di più sono i ritardi tra le diverse regioni, come nel caso del numero unico dell’emergenza 112, che non è attivo in tutte le regioni, o dell’utilizzo della ricetta elettronica, operante solo in alcune regioni. Dunque, la risposta all’emergenza sanitaria è fortemente condizionata dalle differenze e dagli squilibri territoriali che caratterizzano in maniera strutturale ed oramai perenne il nostro sistema sanitario nazionale. È il caso di ricordare che le 7 Regioni in piano di rientro, con tutte le limitazioni alle quali sono sottoposte sul piano organizzativo ed operativo, ed in particolare per quanto riguarda l’assunzione di personale, si trovano nel sud del nostro Paese.
L’epidemia che stiamo vivendo ci avvisa di come sia importante riequilibrare il nostro sistema sanitario, anche al fine di affrontare adeguatamente le future emergenze se non quella in atto. Al contempo mostra tutti i suoi limiti l’approccio prettamente economico-finanziario all’organizzazione dei servizi sanitari che è prevalso in questi anni. Non possiamo limitarci alla sola lotta agli sprechi e alla cattiva gestione delle risorse finanziarie. Si avverte la necessità di disporre investimenti in uno spirito di solidarietà nazionale per le regioni particolarmente “fragili”, che in molti casi scontano ritardi sociali, economici, infrastrutturali. Il superamento del divario tra le diverse regioni, con la conseguente risposta unitaria e uniforme anche alle emergenze sanitarie, non può essere affidato ad una statalizzazione del servizio sanitario nazionale. Bisogna, invece, potenziare “tutti” i sistemi sanitari regionali. Lo testimoniano altri servizi pubblici affidati alla responsabilità dello Stato, come quello scolastico, rispetto al quale l’emergenza sanitaria ha evidenziato forti squilibri tra le diverse realtà territoriali.
Per affrontare l’emergenza sanitaria, le Regioni possono discostarsi dalle decisioni assunte dal governo centrale stabilendo norme più o meno stringenti?
In materia di igiene e sanità pubblica la legge 833 del 1978 istitutiva del Servizio sanitario regionale ha affidato un potere di ordinanza, per regolare i comportamenti delle persone, a Sindaci, presidenti di Regione e ministro della Salute a seconda dell’ampiezza del territorio interessato dall’emergenza sanitaria. Potere di ordinanza che si aggiunge a quello riconosciuto ai prefetti e al ministro dell’Interno in materia di ordine pubblico e sicurezza pubblica, a quello attribuito al capo della Protezione civile, a quello assegnato ai sindaci in materia di emergenze sanitarie e di igiene pubblica, nonché di incolumità dei cittadini e di Protezione civile.
In linea di principio le decisioni assunte a livello statale non possono essere derogate dagli enti regionali e locali, soprattutto se si tratta di decisioni assunte con decreti leggi e non con atti amministrativi dall’incerta portata cogente come i decreti del presidente del consiglio. Pertanto dichiarato il carattere nazionale dell’emergenza sanitaria le istituzioni operanti ai diversi livelli di governo non potrebbero disattendere o discostarsi dalle decisioni statali. Tuttavia motivate, rilevanti e circoscritte problematicità che si manifestano nei territori potrebbero giustificare deroghe a livello regionale e locale. Ovviamente deve trattarsi di una deroga più stringente rispetto alle prescrizioni statali. Non dimentichiamo che questi atti sono comunque soggetti al controllo da parte dei giudici, che possono sempre sanzionare eventuali eccessi, abusi ed arbitri. Se il riconoscimento agli enti territoriali del potere di ordinanza comporta necessariamente una regolazione differente sul piano territoriale, tuttavia il nostro ordinamento prevede strumenti di “riequilibrio” e di “armonizzazione”, quali ad esempio il potere di annullamento da parte dei prefetti delle ordinanze dei sindaci in materia di incolumità dei cittadini e di protezione civile, o il ricorso alle intese con le regioni interessate nel caso delle ordinanze del capo della Protezione civile. Ma è soprattutto il principio di leale collaborazione che deve ispirare ed animare i rapporti tra i diversi livelli di governo soprattutto in caso di emergenze. Ben vengano consultazioni preliminari e reciproci flussi informativi o forme di confronto tra Stato e Regioni che hanno portato, nel caso dell’emergenza sanitaria in corso, all’adozione da parte del ministro della Salute di ordinanze condivise con i singoli presidenti delle regioni e alla introduzione, con l’ultimo decreto legge del 26 Marzo 2020, della necessaria concertazione con i presidenti delle regioni dei decreti del presidente del Consiglio dei ministri.
Rientra invece nelle prerogative regionali la possibilità di assumere autonome decisioni relative all’organizzazione ed erogazione delle prestazioni sanitarie. È il caso ad esempio della scelta se effettuare o meno tamponi a tutta la popolazione regionale, che non solo deve essere adeguatamente motivata sul piano dell’efficacia clinica, ma che è soprattutto condizionata alle risorse economiche regionali disponibili.
Nei casi di epidemia è concorde su una gestione centralizzata o al contrario è preferibile che tutte le Regioni si muovano autonomamente in base alle loro peculiarità territoriali, rischiando però di creare differenti risposte all’emergenza?
In via generale se l’emergenza riguarda l’intero territorio nazionale è giustificata una gestione centralizzata della stessa. Una gestione che come dimostra il sistema nazionale della Protezione civile deve essere condivisa con le realtà territoriali. Pertanto non appare percorribile la strada della totale autonomia regionale per fronteggiare la crisi dovuta al Covid-19. Tuttavia, gli interventi sul territorio devono certamente tener conto delle peculiarità di ogni contesto regionale e locale. Come già evidenziato l’intervento statale deve essere di supporto e sostegno alle amministrazioni territoriali.
Un intervento governativo molto più penetrante, a carattere sostitutivo e temporaneo nella gestione dei servizi sanitari regionali è ipotizzabile, in virtù dell’art. 120 della nostra Costituzione, solo a fronte di un’ingiustificata inerzia, di una manifesta incapacità ed inadeguatezza delle strutture sanitarie regionali nel garantire le necessarie cure alla popolazione anche in caso di epidemia.
Due cose ci dice l’emergenza che stiamo vivendo. Da una parte, la nomina di un Commissario straordinario ci fa capire come sia strategico ed irrinunciabile un intervento unitario per assicurare la capacità di produrre, fornire o acquistare rapidamente medicinali, dispositivi medici e di protezione individuale, presidi sanitari e medico-chirurgici, equipaggiamenti per il personale, apparecchiature sanitarie adeguate, così come per acquisire, e se del caso di costruire, in tempi ridotti strutture sanitarie ed ospedaliere o per attivare nuovi posti letto. Dall’altra, cogliamo l’importanza di potenziare la capacità di previsione, avvalendosi soprattutto delle migliori realtà scientifiche del Paese a partire dall’Istituto Superiore di Sanità e in collaborazione costante con le organizzazioni internazionali ed europee, la centralità degli interventi in materia di prevenzione e sanità pubblica, l’esigenza di un rafforzamento non solo delle amministrazioni statali a ciò deputate, ma soprattutto delle strutture territoriali, quali le agenzie regionali e i dipartimenti di prevenzione delle aziende sanitarie, la necessità di puntare sulla sanità di prossimità, sulle reti territoriali che passano in primo luogo dai medici di medicina generale. Priorità che dovrebbero già caratterizzare in via “ordinaria” il nostro sistema sanitario nazionale e i servizi sanitari regionali e che costituiscono interventi efficaci e necessari per affrontare le emergenze sanitarie come la realtà sta dimostrando.