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Covid-19, la guerra globale di aiuti. Pellicciari spiega il caso Italia

Ancora si fatica ad abituarsi a nuove routine come il seguire la terribile conta dei decessi dovuti al Covid-19 che – superati gli iniziali sensi di colpa e per esorcizzare la lunga durata della emergenza – ognuno nel suo settore d’interesse si chiede quali saranno i cambiamenti che si lascerà dietro questa crisi.

È probabile che sul piano geo-politico le conseguenze saranno di tale portata da non essere tutte ora prevedibili. Ce ne accorgeremo con ritardo e a rilascio progressivo, spesso a cambiamenti già consolidati. Come dopo un furto in abitazione, quando si continua a scoprire via via nelle settimane ciò che manca in casa.

Alcuni trend sono visibili già da ora: uno su tutti – la rafforzata centralità degli aiuti internazionali nel definire le relazioni tra Stati sovrani nell’acutizzarsi delle crisi mondiali.

Va detto che è da censire come “aiuto tra Stati” non solo quello classico umanitario o della cooperazione internazionale – ma qualunque trasferimento a condizioni favorevoli tra un donatore ed un beneficiario, a prescindere dall’oggetto della transazione stessa (e quindi vanno considerati anche trasferimenti di energia, finanza, armamenti, know how tecnologico…).

Non è un fenomeno nuovo ma è interessante il vigore che ha registrato in questi giorni concitati del Covid-19 mentre altri strumenti classici della diplomazia (uno su tutti, il Consiglio di Sicurezza Onu) sembrano sospesi quando non addirittura evanescenti.

È dalle ceneri della Seconda Guerra Mondiale, passando per la guerra nei Balcani, il dissolvimento dell’Urss fino a scenari recenti come quelli in Afghanistan, Ucraina e Siria  – che aiuti organizzati da Stati e/o organizzazioni internazionali si sono presi la scena e hanno inciso sul ridefinirsi delle relazioni internazionali uscite dalle crisi.

Trattando dell’aiuto le narrative (giornalistiche e non) si sono soffermate ad osservare il bisogno del beneficiario che si dichiara di andare a coprire. Molto meno (anzi, quasi mai) le motivazioni politiche del donatore, ovvero quel set di obiettivi “razionali” di politica estera – di rado dichiarati – che ogni Stato-Nazione ha quando decide di privarsi di proprie risorse a favore di soggetti terzi stranieri. Si è così detto e scritto molto più sui valori che sugli interessi legati agli aiuti di Stato internazionali.

In secondo ordine è passato il fatto – conclamato tra gli studiosi di Relazioni internazionali – che l’aiuto è diventato potente strumento di obbligazione politica in mano al Paese donatore, elemento della sua power politics (politica di potenza), al pari di strumenti tradizionali come la diplomazia classica, il commercio, la guerra.

In definitiva, se uno Stato organizza un aiuto non lo fa per le stesse logiche che muovono un individuo ad essere un donatore, ma ha degli obiettivi di politica estera che è importante comprendere, senza cadere nella tentazione di santificarli o demonizzarli.

Ebbene, grande attenzione in questi giorni ha suscitato l’annuncio dell’arrivo di assistenza medica all’Italia proveniente da Cina, Russia e Usa (peraltro davanti a un’apparente inerzia dell’Ue nel regolamentare la distribuzione interna di materiale medico di emergenza).

Senza volere sminuire il bisogno che questi aiuti andranno si spera efficacemente a colmare, si possono intanto fare delle prime riflessioni sulla novità di questa situazione e sulle ripercussioni che avranno nel sistema delle relazioni donatore-beneficiario.

La prima riguarda l’eccezionalità dello status del beneficiario di questi aiuti, ovvero l’Italia: Paese del G7 e una delle principali economie mondiali, con un consolidato sistema politico costituzionale democratico.

Non esistono – nella dinamica donatore\beneficiario – precedenti storici di rilievo di Paesi riceventi aiuti di tale livello di sviluppo al contempo politico ed economico-sociale, se non gravati dall’instabilità di una transizione post-bellica (nei Balcani) e\o post-autoritarie (i paesi nati dalla fine dell’Urss).

Questo significa che i donatori – a crisi finita – potranno usare la loro posizione di forza per trarre benefici maggiori da un beneficiario che ha qualcosa da offrire perché tutt’altro che sottosviluppato o senza un governo certo. Tanto più che l’Italia, nonostante una cronica debolezza politica internazionale, ha sviluppato negli ultimi decenni una diplomazia culturale e commerciale che ne ha aumentato il peso e l’attrattiva geopolitica a livello internazionale, anche se lungo direttrici diverse rispetto a quelle del periodo della Guerra Fredda.

La seconda riflessione riguarda il tratto che accomuna i donatori dell’Italia. Sono tutti campioni dell’idea di un Mondo dove primeggiano le azioni di pochi Stati-Nazione, piuttosto che delle organizzazioni internazionali cui pure essi aderiscono, spesso con poca convinzione.

Dalla Cina, alla Russia, agli Usa, gli aiuti vanno a rafforzare un rapporto diretto tra Stati, tagliando fuori i livelli sovranazionali che rincorrono le iniziative dei singoli Stati, incapaci di coordinarli in via preventiva.

Senza avventurarsi in previsioni sulle future fortune politiche delle opzioni sovraniste, è tuttavia prevedibile che il Covid-19 darà il colpo di grazia a un certo multilateralismo, già in profonda crisi prima di questa pandemia, a tutto vantaggio di una dimensione bilaterale delle relazioni diplomatiche, con al centro la difesa degli interessi dello Stato-Nazione.  Riascoltare oggi il discorso di Trump alle ultime Assemblee Generali dell’Onu suscita molta meno ilarità di quella che lo accolse all’epoca tra gli addetti al settore.

Una considerazione (per ora) finale riguarda la gara cui si è assistito tra i donatori per aiutare lo stesso beneficiario inaspettato, ovvero l’Italia. Per la verità, la donors competition è un fenomeno non nuovo, osservato in non pochi scenari di crisi degli ultimi decenni.

Se lo Stato-donatore indirizza il proprio aiuto per degli obiettivi di ritorno politico, spesso si è assistito a scenari con più donatori che beneficiari, intesi non come Paesi con un particolare tipo di bisogno ma come target geopoliticamente interessanti per giustificare il costo di un intervento.

Questo ha portato spesso (vedi in Bosnia e Kosovo) a fenomeni di donors overload (sovraffollamento di donatori in uno stesso scenario) e aid overlap (sovrapposizione di aiuti sullo stesso beneficiario).

Nel mondo post-bipolare con una mancanza di chiarezza (e di accordo) sulla spartizione delle zone di influenza tra i grandi key players, è probabile che il Covid-19 porti a replicarsi altrove la competizione tra donatori che abbiamo visto nel caso italiano. È presumibile che vi sarà un moltiplicarsi di crisi sub-regionali in forma di “guerre degli aiuti” per accaparrarsi prima il beneficiario, tanto più se inaspettato e sviluppato come nel caso italiano e puntellare un influenza geopolitica su nuove zone divenute improvvisamente accessibili.

Parafrasando Von Clausewitz, se è vero che la guerra è continuazione della politica con altri strumenti, allora gli aiuti (dati e ricevuti) saranno un’altra forma di guerra.

In tutto ciò la Golden Card sarà nelle mani dello Stato\donatore che riuscirà per primo a produrre (non necessariamente ad elaborare) il vaccino contro il Covid-19 e controllarne la distribuzione a paesi terzi. Sarà uno strumento, potentissimo, di obbligazione politica; che ridefinirà zone di influenza e alleanze per gli anni a venire. Almeno fino alla prossima pandemia.


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