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Covid-19, ecco i rischi per la sicurezza nazionale. Parla Amorosi

Siamo entrati in una fase di “bio-insicurezza globale in cui è il virus che sembra avere controllo sulla geopolitica e non viceversa”. Eppure, non tutto è perduto. C’è ancora tempo per recuperare terreno rispetto al Covid-19, iniziando a seguire gli insegnamenti del passato. Parola di Massimo Amorosi, esperto di studi strategici, già consigliere della Farnesina per biosicurezza e minacce Cbrn, acronimo che raccoglie le sfide chimiche, biologiche, radiologiche e nucleari.

Con l’emergenza Covid-19, si parla molto di biosicurezza. Ma cos’è concretamente?

Per essere chiari, la biosicurezza è il legame che tiene insieme l’eventuale impiego intenzionale o deliberato di agenti patogeni con altri aspetti di sicurezza relativi alla salute pubblica, considerando fra questi ultimi anche (ma non solo) la sicurezza da eventi pandemici. Le attività di policy e di ricerca che noi associamo con entrambi questi ambiti sono necessariamente collegate. Fatta questa premessa, i piani di preparazione ed i meccanismi di risposta sono praticamente simili.

Chi è responsabile per la biosicurezza durante emergenze come l’attuale pandemia?

La recente pandemia da Sars-Cov-2 dimostra che i governi nazionali e le organizzazioni internazionali preposte (in primis l’Organizzazione mondiale della sanità) devono attrezzarsi adeguatamente per far fronte a maxi-emergenze di natura biologica come quella che stiamo vivendo ora. Fenomeni quelli di origine biologica che sono sempre più frequenti: si pensi all’ultima epidemia di Ebola del 2014, che era stata definita minaccia alla pace e alla sicurezza persino con una risoluzione adottata dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Questo ci deve indurre a non permettere oltre ritardi o incertezze.

Possiamo dunque definire l’attuale scenario una questione di sicurezza nazionale?

La crisi non è solo circoscritta alla circolazione pandemica del virus, ma è anzi amplificata dalla oggettiva incapacità di combatterla senza ingenti costi economici e le relative conseguenze in termini di impatto sociale. Ma questa grave emergenza comporta soprattutto rischi che toccano nel vivo i nostri interessi nazionali. Penso alla possibilità che possano diventare oggetto di attenzioni ostili assetti strategici del nostro Paese, ossia le società operanti in settori come quelli dell’energia, delle telecomunicazioni, o della difesa. In definitiva, questo non è il tempo di interventi sporadici o di breve termine ma davvero strutturali, al fine di proteggere gli interessi vitali del Paese.

L’Europa, di fronte a questa emergenza, sta mostrando divisioni macroscopiche.

È così. Una per tutte: proprio nelle ore in cui circolavano con grande e comprensibile enfasi le immagini dei mezzi militari russi sbarcati in Italia, si è saputo che la Spagna aveva chiesto assistenza all’Alleanza Atlantica, nella fattispecie all’Eadrcc, ossia al Centro euro-atlantico di Coordinamento della risposta ai disastri, a cui si si è rivolta peraltro anche l’Ucraina.

Alcuni osservatori hanno riscontrato criticità anche nella gestione da parte dell’Oms. È così?

Effettivamente, pare che non siano mancati ritardi da parte dell’Oms. Tuttavia, non si può non notare un’assenza di coordinamento tra i diversi governi, che è stata peraltro fatta notare da più parti. La sottovalutazione riguarda il fatto che questo virus mostrasse un potenziale pandemico già da gennaio. Non solo. Non si è adeguatamente considerato che un agente virale altamente diffusivo come questo potesse avere delle implicazioni non solo per la salute pubblica, ma anche per la sicurezza nazionale dei Paesi coinvolti.

Saremmo dovuti essere più preparati?

L’epidemia della febbre virale emorragica di Ebola avrebbe dovuto essere un campanello d’allarme. Ed ancora prima dell’epidemia originata in Africa occidentale, abbiamo avuto l’epidemia di Sars nel 2002-2003 originata nella provincia cinese del Guangdong. Nel caso specifico del Sars-Cov-2, inoltre, arrivavano dalla Cina dei “warnings” non solo sul potenziale diffusivo, ma anche da un punto di vista clinico.

Esempi sottovalutati?

L’impressione è che, ferme restando delle consolidate norme di sanità pubblica come la pratica della quarantena, i diversi Paesi si siano mossi con approcci metodologici e strategie differenti. La Corea del Sud, di cui si parla in questi giorni a più riprese, ha messo in atto un approccio di contenimento che tiene conto della precedente esperienza della Sars. I tratti salienti sono il ricorso massiccio ai test diagnostici, anche a soggetti asintomatici o che manifestavano sintomi lievi, un puntuale tracciamento dei contatti (contact tracing), l’isolamento, e un uso su larga scala delle tecnologie digitali più moderne. Altri Paesi avrebbero privilegiato invece approcci più improntati alla gestione di una pandemia di tipo influenzale. In questo caso, l’obiettivo sembra essere quello di rallentare la trasmissione virale nella consapevolezza che questa non può essere completamente interrotta.

Quale è l’effettiva portata di questa pandemia?

Tra le minacce alla sicurezza, sicuramente quella costituita dalla diffusione di un patogeno ad elevata trasmissibilità è quella che ha maggiore potenzialità di impattare sugli equilibri politici, economici e sociali, sia interni ad un Paese, che su quelli internazionali con effetti anche dirompenti. Nel caso dei rischi biologici, si può probabilmente affermare che è il virus che ha un controllo sulla geopolitica e sulla geoeconomia mondiale e non viceversa. Da questo momento, credo che dovremmo introdurre il concetto di “bio-insicurezza globale” allo scopo di rivedere gli approcci alla prevenzione e i meccanismi di “consequence management”.

Che intende?

Intendo dire che la preparazione a simili rischi non richiede solo finanziamenti, ma esige soprattutto organizzazione e una pianificazione “robusta”. E i rischi non provengono solo da potenziali eventi pandemici di origine naturale imputabili alla comparsa di virus emergenti, tra i quali ricomprendere zoonosi emergenti, ossia di derivazione animale. Questi si vanno a saldare anche con rischi che promanano dalla proliferazione sia di laboratori ad elevato livello di biosicurezza, sia di attività di ricerca “dual use” in cui è centrale la tensione tra la diffusione di tecnologie volte a proteggerci e la propagazione di tecnologie a cui si può fare ricorso invece per fini ostili. In merito alla sensibilità di tali attività di ricerca si era pronunciato un report del 2003 delle National Academies degli Stati Uniti. A conferma del ruolo centralissimo del know-how quando si tratta di rischi biologici. In considerazione di una tale pluralità di rischi, le istituzioni preposte alla prevenzione e la comunità scientifica devono agire in totale sinergia tramite un approccio che sia davvero multidisciplinare.


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