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Siria e Abu Dhabi. Ecco come il coronavirus impatta nel Medio Oriente

Con un doppio comunicato da Damasco e Abu Dhabi, venerdì sera è stata diffusa la notizia di una telefonata inusuale per quanto significativa: l’erede al trono emiratino, Mohammed Bin Zayed, e il rais siriano Bashar el Assad si sono parlati. Gli Emirati prometto assistenza “al popolo siriano in queste circostanze eccezionali […] indicando che la Siria non rimarrà sola in queste condizioni critiche”, dice la dichiarazione assadista, lasciando spazi: si tratta della questione sanitaria prodotta dall’epidemia di coronavirus, oppure c’è qualcosa di più che riguarda la situazione siriana o regionale generale?

La Siria, dopo nove anni di guerra civile, è un paese devastato. È rientrato più o meno sotto il controllo del regime, se si escludono due aree: quella della provincia di Idlib, rimasta un’enclave in mano ai ribelli, attorno a cui si snodano combattimenti dal valore geopolitico che coinvolgono anche Russia e Turchia; e quella nord-orientale, fascia del paese formalmente ripulita dall’infestazione statuale dello Stato islamico, ma ancora per niente libera e sicura dall’azione (e dal nuovo attecchimento) delle spurie del gruppo – circostanza a cui si sovrappone l’annosa questione dei curdi siriani che abitano quella regione del paese.

La crisi globale prodotta dal coronavirus non ha risparmiato il Medio Oriente, anzi: nei campi profughi dove trovano rifugio precario milioni di profughi che il conflitto siriano ha prodotto in questi anni l’epidemia potrebbe aver dimensioni enormi. E mancano sistemi di controllo e strutture di assistenza – è una preoccupazione umanitaria che assume anche carattere politico per i paesi che ospitano i campi profughi, su tutti la Turchia, il Libano e la Giordania (ma, uscendo dalla regione, anche la Grecia). La dichiarazione assadista è più circoscritta su questo aspetto nel tweet in cui bin Zayed descrive la telefonata e parla di quelle “circostanze eccezionali” e “assistenza” riferendosi direttamente al “coronavirus” – il SarsCov2 responsabile della pandemia globale.

“La crisi del coronavirus offre un’opportunità su una linea nota portata avanti dagli emiratini già dal 2015, quando hanno iniziato a flirtare con i russi per spostare verso di loro Assad ed evitare che scivolasse troppo verso l’Iran, e continuata in modo indipendente già dalla fine del 2016 partita attraverso operazioni di diplomazia commerciale, poi offrendo un ruolo nella ricostruzione siriana e poi riaprendo il tessuto diplomatico ufficiale a Damasco”, spiega a Formiche.net Cinzia Bianco, esperta di Golfo dell’Ecfr di Berlino.

“Come strategia profonda, gli Emirati stanno cercando di far entrare gli sciiti all’interno della sfera di influenza che esercitano sul mondo arabo – spiega Bianco – e possono farlo perché gli sciiti emiratini sono perfettamente allineati con l’establishment del regno. Invece in Arabia Saudita è diverso, perché gli sciiti sauditi sono irrequieti e tutt’altro che su posizioni allineate. È questo il grande distinguo tra i due alleati, molto più delle politiche in Yemen”.

L’attività di aggancio alla Siria è iniziata insieme ai sauditi, ma poi gli Emirati hanno spinto in modo più sofisticato e personale, aggiunge Eugenio Dacrema, co-head del Mena Center dell’Ispi. “C’è una divergente visione all’interno del mondo del Golfo che divide anche gli alleati storici, sebbene in modo non troppo esplicito: Riad teme ancora l’Iran come grande nemico, mentre Abu Dhabi ha iniziato un’evoluzione più raffinata del pensiero. Iniziano a comprendere che la Repubblica islamica può essere una sorta di partner nel mantenimento dello status quo autoritario della regione, così come lo è Assad, contro l’asse che vorrebbe un rovesciamento dal basso tramite quel rimaneggiamento ideologico in corso”.

Quello che si collega a un islamismo che semplifichiamo con le idee della Fratellanza musulmana, ma che è qualcosa di diverso e più complesso. L’asse di cui parla Dacrema è infatti quello composto da Turchia e Qatar, che fa da cassa economica: la contrapposizione dei mondi mediorientali pro e contro status quo è un grande argomento che si sta spostando a cavallo di dossier importanti ed extra regionali come la Libia, dove Turchia ed Emirati si trovano sui due campi contrapposti del conflitto. Una guerra che procede anche perché questi attori esterni stanno usando la crisi libica come campo di battaglia per scontrarsi attraverso i proxy.

Il passaggio siriano di MbZ si sovrappone ad altri in corso sotto questa linea di contatti. Per esempio, qualche settimana fa il capo dell’intelligence egiziana è stato ospitato a Damasco per incontri con il potentissimo omologo siriano. Linee di credito politico non indifferenti. Sovrapposizioni di traiettorie di interessi che si spostano dalla Siria alla Libia. Punti in comune tra i due dossier e avvicinamenti laterali di cui Dacrema aveva parlato su Formiche.net. Dalla parte della Tripolitania sono schierate Turchia e Qatar con le loro visioni, in Cirenaica invece il capo miliaziano Khalifa Haftar che (semplificando) diventa un vettore per ricostruire lo status quo libico pre-caduta del Rais.


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