In questi ultimi giorni sembra esserci una sostanziale convergenza tra i vari governi su una specifica risposta alla pandemia legata al coronavirus, che sostanzialmente rinvia alla scelta italiana (e prima cinese: tutto chiuso e tutti a casa) con magari qualche spruzzata di tecnologia (come il tracciamento delle persone via app stile Corea del Sud). Anche governi all’inizio scettici a riguardo (Stati Uniti, Francia, Germania e Gran Bretagna) stanno cambiando velocemente la propria idea. Lo stesso sembra stia avvenendo a livello di esperti sul tema (medici, virologi, biologi, pur con qualche interessante eccezione e soprattutto e caldamente da leggere, qui). Probabilmente stiamo veramente convergendo sulla risposta più appropriata a questa immane sfida. Almeno, c’è da augurarselo. Ci sono però anche altre dinamiche, del tutto esogene rispetto alla “bontà” della soluzione, che potrebbero rafforzare questa generalizzata convergenza, dinamiche che valgono sia a livello dei politici, che a quello degli scienziati. Partiamo dai primi.
Immaginate di essere il leader di un Paese in questo momento. Di fronte al coronavirus avete sostanzialmente due strade di fronte a voi. Strada A): seguire quello che stanno già facendo gli altri Paesi. Strada B): provare una strada nuova. Quale delle due opzioni portereste avanti con più probabilità? Se scegliete la B) (la “via originale”) e vi va bene, avrete tanti onori (siete stati i primi e gli unici!), ma se vi va male, pagherete dei costi politici immani, dato che la responsabilità sarà solo vostra (siete stati i primi e gli unici anche qua!).
Tralasciando il fatto che seguendo la strada B) rischiate di vedere aumentare i morti nel breve tempo, e nessun politico (e in generale nessuna persona) vorrebbe mai vedersi associato a ciò. Magari poi nel lungo periodo salterà fuori che il numero di deceduti nel vostro paese sono minori rispetto agli altri. Ma sarà troppo tardi, perché nel lungo periodo, si sa, siamo già tutti morti. Specie un politico. Se scegliete invece la A) (la “via condivisa”) e vi va bene, gli onori saranno meno (avete fatto bene, ma come gli altri); e se vi va male? Potrete sempre dire: cosa potevamo fare di diverso? Abbiamo fatto come gli altri! Insomma, mal comune mezzo gaudio (e costi politici che rischiate di pagare minimizzati). Ergo, il nostro politico avrà forti incentivi ad optare per la strategia meno rischiosa (“così fan tutti!”). Da qui la convergenza tra tutte le possibili risposte al coronavirus su una singola variante, non solo (e necessariamente) perché la migliore.
Il problema è che questa dinamica è rafforzata anche da una seconda dinamica, che vale invece per gli scienziati. Qualche mese (o settimana) fa il dibattito sul coronavirus appariva molto più pluralista di quello che è oggi. Ancora una volta, potrebbe essere che gli scienziati si siano convinti sulla bontà di una specifica risposta. Ma non possiamo neanche a priori escludere una dinamica di conformismo sociale (o di “cascata informativa”) come nel famoso esperimento di Solomon Asch.
Immaginate ora di essere un virologo. Per il fatto di esserlo, sarete convinti (magari a ragione!) con una elevata probabilità di essere nel giusto, ma in fondo nel vostro (grande) ego, sapete che c’è una piccola probabilità di stare sbagliando. D’altra parte, sapete anche che tutti gli altri virologi ed esperti intorno a voi sono nella vostra stessa situazione. Ora, se incominciate a sentire che tutti gli altri scienziati (che sanno!) incominciano a dire A), anche se voi originariamente pensavate che la risposta corretta fosse B), incomincerete ad avere (ragionevoli) dubbi su B), e alla fin fine direte (del tutto razionalmente) anche voi A). E magari invece era giusto B). E così via, in una profezia che si auto-adempie. E quindi? Quindi, non ci rimane che aspettare, osservare, e magari, imparare. Con le dita incrociate.