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Vittorio Gregotti. Un ricordo dell’architetto scomparso

Vittorio Gregotti ha rappresentato per più di una generazione di architetti un riferimento costante: progettista, professore, saggista, ma soprattutto uomo di cultura particolarmente attento al panorama internazionale. Partecipa in prima persona a quell’ambiente milanese, sostenuto dal “Corriere della Sera”, dal quale emerge, in vari campi, lo spirito democratico che percorre le principali città del nord alla fine della seconda guerra mondiale. Gae Aulenti, Giorgio Strehler, Dario Fo, Giorgio Bocca sono solo alcuni degli intellettuali milanesi che, insieme a Gregotti, partecipano alla rinascita di un clima, estremamente fertile, che alimenterà il Teatro alla Scala, il Piccolo Teatro, Brera, la Casa della Cultura.

Su alcuni suoi testi si formano gli studenti di architettura tra la fine degli anni ’60 e i successivi anni ’70, che poi seguiranno con passione, quasi con ansia, gli editoriali della Rivista “Casabella” diretta tra il 1982 e il 1996. Sono gli anni in cui la cultura architettonica del Moderno e del Razionale si scontra con le esagerazioni del Post-Modern portate avanti, soprattutto negli Stati Uniti, attraverso grattacieli fortemente simbolici e centri commerciali di grande impatto pubblicitario. Autore di moltissimi progetti, sia in Italia che all’estero, firma due opere, il Quartiere Zen a Palermo e l’Università di Arcavacata in provincia di Cosenza, che provocano un accanito contrasto tra gli architetti e gli urbanisti in tutta Italia. La scelta di Gregotti, poco fortunata a Palermo anche per pesanti infiltrazioni mafiose, si rivolge a un disegno a scala territoriale, in aperta antitesi con le proposte nord europee, sostenute da molte “scuole” di architettura, di progettare quartieri dove le residenze fossero di dimensioni contenute e riconoscibili.

A Gregotti la cultura architettonica italiana deve sicuramente la diffusione in campo internazionale, attraverso la sua partecipazione, in qualità di visiting professor, a corsi e conferenze in Gran Bretagna, Giappone, Stati Uniti e America del sud, dove il suo contributo culturale non si è mai appiattito o assuefatto alle mode del momento.

Il suo interesse per l’architettura, e per l’arte più in generale, è riconoscibile in molte opere. La passione per la musica è espressa in due delle realizzazioni più significative. Il Centro Culturale di Belém a Lisbona (1993), firmato con Manuel Salgado, dove la soluzione dell’ambiente interno propone una reinterpretazione tipologica del teatro lirico: nel volume, quasi cubico, gli ordini dei palchi si allineano su pareti che piegano ad angolo retto, smontando completamente l’idea delle “finestre” che si affacciano curiose sulla platea del tradizionale teatro a ferro di cavallo. L’intero centro culturale costruisce una porzione urbana di ampie dimensioni che mette in collegamento alcune parti storiche della città atraverso una composizione, ordinata da un percorso longitudinale che si apre su una grande piazza interna all’ombra della torre scenica. La seconda sperimentazione su edifici musicali del tutto originale è costituita dal Teatro degli Arcimboldi a Milano (1996-2002) progettato in sostituzione della Scala, occupata da lavori di profonda ristrutturaziione. Se a Belém la ricerca è soprattutto all’interno della sala, qui l’attenzione è rivolta alla configurazione di un edificio posto in un’area periferica ex-industriale, che contravviene alla tradizione del teatro lirico nel centro storico della città. La distribuzione interna non si affida all’abbraccio dei palchi, bensì a tre ordini di gallerie che completano il piano inclinato dei gradoni della platea.

Gregotti muore di polmonite a Milano, che è oggi al centro di una situazione drammatica, soffocata da un’epidemia di cui ancora non si conosce la reale portata. Di lui si impone il ricordo del valore, della capacità e della dimensione culturale, non certo locale, che, proprio il giorno della sua scomparsa, a partire da Lisbona sta attraversando quei luoghi dove ha trovato forti radici quella cultura europea che la Milano del dopoguerra ha sostenuto con convinzione.


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