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Iran, Iraq, Usa. Ecco il risiko mediorientale del Covid-19

Questo mercoledì 15 razzi Katyusha sono stati lanciati contro la base di Taji, che è irachena ma ospita anche personale occidentale. Due americani e un inglese sono stati uccisi, e se non fosse per la grande crisi globale del coronavirus forse la reazione da Washington sarebbe stata ben più tosta  — ma mentre arrivavano le notizie dell’attacco, il presidente statunitense era locked and loaded per parlare alla nazione e al mondo e annunciare che gli Stati Uniti si stavano muovendo per prendere sul serio la pandemia.

In quelle ore, un militare americano ci confermava a distanza ciò che era piuttosto evidente da subito: lo Stato islamico non ha capacità tali al momento e poi non è il suo modus operandi. Azioni del genere sono il marchio di fabbrica dei gruppi paramilitari sciiti controllati dall’Iran, che già sono stati protagonisti di attacchi identici anche negli ultimi mesi. Oltretutto ieri era il compleanno di Qassem Soleimani, il generale dei Pasdaran che è stato il deus ex machina di questi gruppi di influenza violenta che l’Iran usa in varie aree del Medio Oriente. A inizio gennaio, Soleimani è stato eliminato vicino all’aeroporto di Baghdad da un’operazione chirurgica americana. Era considerato un eroe in patria e nei paesi in cui quei gruppi sono diffusi (come l’Iraq, o il Libano e la Siria): la sua morte non sarà mai del tutto vendicata.

In risposta a quanto successo, mercoledì sera le forze della Coalizione internazionale che è nella regione mediorientale per combattere lo Stato Islamico, ma ha anche con compiti più strategici, hanno bombardato postazioni dei combattenti sciiti afgani Fatimiyoon, e degli iracheni Kata’ib Hezbollah, Kata’ib Sayyid al-Shuhada e della Harakat Hezbollah al-Nujaba. Si tratta di milizie controllate dall’Iran, che Teheran ha spostato in Siria per sostenere il regime assadista nella guerra civile, e in Iraq per aiutare il governo amico contro l’Is al fine di ottenere maggiori tornaconti all’interno del tessuto socio-economico del Paese.

Questo giovedì ha parlato pubblicamente alla Commissione Servizi armati del Senato il capo del CentCom, che è il comando del Pentagono che copre il quadrante mediorientale, citando l’Iran come “più probabile responsabile” dell’attacco di mercoledì, perché, dice il generale Kenneth McKenzie, è ora che gli iraniani si inizino ad assumere la responsabilità di ciò che fanno le “loro” milizie. L’ufficiale ha detto che il suo principale obiettivo tattico è adesso quello di contrastare le attività dei Pasdaran e dei gruppi satellite – ed è un’informazione importante, perché finora l’obiettivo del suo comando era guidare le attività contro il terrorismo organizzato.

McKenzie ha risposto all’intervento di apertura del senatore Jim Inhofe, chairman della Commissione dalla linea molto trumpiana, il quale sosteneva che dopo l’eliminazione di Soleimani la situazione con l’Iran era “in de-escalation”. Il generale ha usato garbo, non ha contraddetto Inhofe che riportava la ricostruzione che il presidente vuol dare della situazione, ma ha anche  messo in guardia sul fatto che con l’Iran “non è finita” Anzi ci sono “ampie informazioni” di intelligence secondo cui gli iraniani non vogliono ridurre le loro “attività maligne” contro gli Usa. Di più: McKenzie dice che l’aumento dei militari americani in Medio Oriente sta scoraggiando gli iraniani dall’attaccare direttamente gli Stati Uniti ma “ciò che non è cambiato” è il loro “desiderio di operare attraverso i proxy indirettamente contro di noi” – e “non solo in Iraq”. 

Poi un’osservazione estremamente interessante: il coronavirus sta avendo un impatto sul modo in cui la leadership iraniana prende le decisioni, “le rallenta”, ha spiegato il generale, ma Teheran “è più pericoloso piuttosto che meno pericoloso”. Il regime teocratico iraniano ha provato a minimizzare ciò che sta accadendo nel paese, temendo la reazione della popolazione che si è già dimostrata nei mesi passati esausta del sistema. Non è mancato il tentativo di usare la retorica cospirazionista anti-occidentale, accusando gli Stati Uniti di aver creato il virus per colpire la Cina. Media come Press Tv hanno diffuso certe ricostruzioni, mentre la leadership cercava di distogliere l’attenzione anche attraverso nuove crisi. Come per esempio gli annunci sul nucleare, e anche attività a plausible deniability come quella di ieri. Vettori del nazionalismo con cui la Guida cerca di nascondere le magagne.

Oggi il governo iraniano ha chiesto al Fondo monetario internazionale di poter ricevere 5 miliardi di dollari del Rapid Financial Instrument per far fronte all’epidemia di coronavirus. Il Covid-19 ha pesantemente colpito la Repubblica islamica, con un impatto che gli scienziati ritengono notevolmente superiore a quello dichiarato dal regime di Teheran. E d’altronde ci sono vari segnali che la dimensione reale sia più grossa di quella resa pubblica — per cui comunque l’Iran è il terzo Paese al mondo per casi accertati — e la richiesta di aiuti all’Fmi è uno di questi.

Ma c’è anche un altro segnale: il Fmi è controllato per il 16% dagli Stati Uniti, e la richiesta diventa un elemento effettivo di de-conflicting che disegna ancora una volta la distanza tra l’attuale quadro politico che costituisce il governo iraniano, lo stesso che nel 2015 ha stretto con gli Usa in primis un accordo sul nucleare, e la vecchia guardia conservatrice rappresentata dei filoni più aggressivi dei Pasdaran che continua a ritenere lo scontro retorico e l’ingaggio armato a media intensità con gli americani una necessità ideologica – e di interessi.

In questi giorni il ministro degli Esteri iraniano, Javad Zarif, sta portando avant una campagna di moral -suasion per far sì che gli Stati Uniti accettino di sollevare le sanzioni sull’importazione dei sistemi medico-sanitari. È una richiesta logica in una fase in cui l’epidemia in Iran è devastante, ma contemporaneamente, i Pasdaran ordinano attacchi contro gli americani in Iraq, rendendone i contorni complicati. L’obiettivo dei conservatori è impedire aperture dagli Usa, per poi usare quelle chiusure come un elemento propagandistico e creare consensi interni. Attività che è riuscita ultimamente, basta guardare ai risultati delle ultime elezioni.

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