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Cina-Taiwan. Da dove nasce il pasticcio sulla mappa del virus

La mappa del contagio da coronavirus più consultata al mondo è finita nel mirino del governo di Taiwan, che ha accusato una delle migliori università degli Stati Uniti, la Johns Hopkins, di aver chinato la testa alla Cina allineandosi alla sua politica “una sola Cina”. Tutto ruota attorno ai nomi utilizzati sulla mappa per contare il numero di contagiati e morti da Covid-19 sull’isola che si ritiene indipendente dalla Repubblica popolare cinese che, al contrario, la considera parte del territorio sotto il controllo di Pechino. Basti pensare che a gennaio, dopo le elezioni di Taiwan che hanno visto la vittoria del candidato anticinese, Ma Xiaoguang, portavoce dell’Ufficio per gli affari di Taiwan del governo di Pechino, aveva dichiarato che Taiwan “non è mai stato un Paese, è parte inalienabile della Cina”.

Taiwan ha protestato per il fatto che la John Hopkins abbia deciso di considerare l’isola come parte della Cina, in linea con le pressioni del governo di Pechino su aziende e istituzioni di tutto il mondo per identificare Taiwan semplicemente come una provincia cinese. A raccontare la polemica toponomastica è Axios, sito che in questi giorni sta prestando molta attenzione agli effetti sulla leadership cinese nel mondo alla luce della pandemia coronavirus.

LE COLPE DELL’OMS

Il pasticcio nasce dall’Organizzazione mondiale della sanità, già da più parti accusata di essere stata troppo morbida con Pechino (che negli ultimi giorni le ha staccato un assegno da 20 milioni di dollari per aiutare a contrastare il virus). Per l’Oms i casi di Taiwan vanno sotto la Cina, e l’isola è “Taipei e dintorni”. Stessa definizione utilizzata dalla Johns Hopkins per la sua mappa interattiva che è divenuta un riferimento per la maggior parte dei media di tutto il mondo. 

Si è mosso il ministero degli Esteri di Taiwan annunciando, attraverso l’ufficio di rappresentanza negli Stati Uniti, una richiesta formale all’università. E si sono mossi anche alcuni deputati statunitensi tra cui il senatore della Florida Marco Rubio. Così nelle ultime ore è arrivata la correzione, nonostante per un giorno intero l’ateneo abbia insistito adottando la definizione dell’Organizzazione mondiale della sanità. Ora si legge “Taiwan*”. Con l’asterisco, il cui rimando è a fondo pagina: “I nomi delle località corrispondono alle designazioni ufficiale del dipartimento di Stato americano, compreso Taiwan”.

LE PRESSIONI DI PECHINO

Caso risolto? Sì, almeno per ora e per quanto riguarda la Johns Hopkins. Perché il coronavirus sta facendo emergere lo scontro tra Cina e Taiwan. Il governo di Taiwan ha accusato quello di Pechino di avergli negato informazioni di prima mano sull’epidemia (poi diventata pandemia) bloccandone l’accesso all’Organizzazione mondiale della sanità. Ma la Cina e la stessa Oms hanno spiegato in coro che a Taiwan è stato garantito tutto l’aiuto necessario. Il governo cinese si è spinto oltre affermando che la Cina da sola ha il diritto di parlare anche per Taiwan nonostante non eserciti alcuna forma di governo su Taiwan né abbia voce diretta sulla sua politica sanitaria, che pur ha dato prova di buone capacità nel contrasto al virus.

Come spiegato da Axios, negli ultimi anni il governo cinese ha cercato sempre più di controllare il modo in cui le organizzazioni e le aziende internazionali fanno riferimento a Taiwan, insistendo affinché adottino una formulazione in linea con il principio “una sola Cina” del Partito comunista cinese. Nel 2018 Pechino aveva minacciato ritorsioni contro le compagnie aeree di tutto il mondo se non avessero modificato le diciture sui siti internet e i materiali a bordo. E ora queste compagnie aeree ora elencano la capitale di Taiwan semplicemente come “Taipei” o come “Taipei, Cina”.

IL CASO AVIAZIONE

Il coronavirus ha rivelato anche un altro caso in seno alle organizzazioni internazionali. Quello dell’Icao, l’ente dell’aviazione civile protagonista nei giorni dell’esplosione dell’epidemia coronavirus per le sue politiche anti Taiwan. Si tratta di una delle quattro agenzie delle Nazioni Unite guidate da un cinese. A proposito dell’Icao, sempre Axios ha rivelato che l’organizzazione ha risposto alle proteste del dipartimento di Stato e del Congresso americani che chiedeva chiarezza sulla sue politiche sui social dopo che molti attivisti pro Taiwan sono stati bloccati su Twitter dall’Icao.

Il presidente del Consiglio dell’Icao, l’italiano Salvatore Sciacchitano, ha scritto in una lettera al Congresso che l’Icao è impegnato per la libertà di espressione ma anche che “come dimostrato dai recenti eventi mondiali, ridurre la diffusione di informazioni inaccurate o intenzionalmente fuorvianti tramite i social media è una grande sfida”. Per questo, “riconoscendo che l’attuazione della politica in questi casi specifici ha generato qualche interpretazione errata, desidero informarvi che ho chiesto al segretario generale di rivedere il suo pieno allineamento con le politiche e le pratiche dei social media delle Nazioni Unite”. Axios ha sentito Anthony Arend, professione della Georgetown University, secondo cui la lettera non “affronta le domande”: “In quanto organizzazione internazionale, dovrebbero servire tutte le persone. Questo non sembra un approccio ragionevole”, ha concluso l’esperto.

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