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Regime change in Iran? Effetti imprevisti del coronavirus…

La richiesta di aiuto al Fondo monetario internazionale da parte dell’Iran per far fronte all’emergenza creata dal coronavirus nel paese è un elemento che potrebbe modificare le dinamiche di una regione cruciale come il Medio Oriente. L’annuncio, diffuso ieri via Twitter, dal ministro degli Esteri, Javad Zarif, e poi spiegato in termini di numeri dal direttore della Banca centrale iraniana – saranno 5 miliardi di dollari – è una mossa che ha contorni epocali.

Richiedere l’intervento dell’Fmi significa cedere buona parte della propria sovranità (nel 2011, quando venne proposto qualcosa del genere per far fronte alla crisi del debito, l’Italia si rifiutò proprio per questa ragione). Si tratta di un prestito, a cui si abbina un piano di rientro concordato e costantemente monitorato – e non è detto che si fermerà alla cifra annunciata. Dal punto di vista tecnico significa che ispettori del Fondo saranno costantemente presenti a Teheran e l’organizzazione terrà strettamente monitorati i capitoli di spesa.

Tutti. Compresi dunque quelli che la Repubblica islamica destina abitualmente per il mantenimento in essere dei suoi proxy regionali. Come quando un’azienda si espone a una richiesta di prestito per salvarsi dal fallimento, le entrate dovranno essere usate per risanare l’impegno, e tutto ciò che viene considerato superfluo eliminato.

È qui che si apre lo scenario sotto l’aspetto ideologico. Chiedere aiuto ammettere una condizione di emergenza, finora negata, e affidarsi a un’organizzazione controllata per il 16 percento dagli Stati Uniti – e per altre copiose percentuali dal mondo occidentale – e dunque chiedere assistenza al nemico al momento del bisogno. Significa inoltre che il Fondo avrà la gestione delle risorse iraniane, e se anche dovessero uscir fuori tesoretti extra quelli dovranno essere riutilizzati o per spese collegate alla richiesta, oppure a rimettere il prestito nelle casse dell’organizzazione con sede a Washington.

Questo con ogni probabilità impedirà alla Repubblica islamica continuare i capitoli di bilancio con cui i Pasdaran spingono il piano di assistenza economica e militare ai gruppi politici armati. Quelli con cui la linea conservatrice ha costruito quella che viene definita la Mezzaluna Sciita. Ossia il prolungamento – sotto la linea guida ideologica dello sciismo, e degli interessi degli ayatollah – dell’Iran all’interno del Medio Oriente. La creazione di vettori che hanno lavorato dall’interno di vari paesi della regione per scalarne il tessuto economico-sociale e politico-culturale e arrivare fino alle posizioni di leadership. È il caso di Hezbollah in Libano, o dei partiti/milizia iracheni, ma anche delle milizie in Afghanistan, Pakistan, Siria, o ancora dei gruppi satellite come gli Houthi in Yemen.

Senza fondi, controllati e veicolati dall’Fmi, viene meno l’intera struttura della Mezzaluna. È una previsione di valore strategico, dunque lungo termine, che probabilmente non avrà annunci pubblici, ma seguirà il suo corso in modo discreto. E rimarrà chiaramente qualche continuazione narrativa, spinta da ragioni di apparato (per esempio, ci sono strutture interne ai vari stati che si mantengono in piedi perseguendo un ingaggio a bassa intensità, anche solo a livello retorico).

La questione dell’Fmi è con ogni probabilità connessa alla crisi politica interna all’Iran. Al governo ci sono formazioni pragmatiche (che spesso vengono definite “moderate”), ma la maggioranza parlamentare è occupata dai conservatori, che nel paese si assiepano attorno alla Guida suprema e soprattuto ad alcune porzioni del variegato mondo dei Pasdaran. I moderati hanno bisogno di ossigeno per sopravvivere, ed ecco che la crisi del coronavirus diventa un’occasione.

La richiesta di aiuti all’Fmi e l’inquadramento del paese all’interno di un sistema di controllo politico-economico internazionale è arrivata dal governo nelle stesse ore in cui la Guida Ali Khamenei denunciava una “attacco biologico” contro il paese – da quello si sarebbe creato il COVID – e in cui milizie collegate in Iraq attaccavano una base militare uccidendo due americani e un inglese.

È in corso una rottura narrativa però, che riguarda anche un percorso di timida secolarizzazione: la crisi sanitaria è partita da Qom, cuore religioso iraniano, e ha avuto un passaggio nevralgico che ha fatto segnare un cambiamento nell’atteggiamento prima oscurantista usato dal regime iraniano: la chiusura della moschee per la preghiera del venerdì. È stato anche un meccanismo per evitare la diffusioni di sermoni troppo spinti sulla linea-Khamenei?

La scienza – il contenimento della crisi epidemiologica – messa davanti alla religione, un elemento non banale in una repubblica teocratica in cui c’è chi cerca di sfatare l’epidemia leccando i monumenti nei luoghi sacri e dimostrare così che la fede è più forte del virus. E ancora, la scienza tecnocratica del Fondo monetario internazionale messa davanti al piano strategico pensato dai Pasdaran per la Nuova Grande Persia.

Il governo iraniano porta il paese a cedere sovranità come mossa finale per sconfiggere i conservatori all’interno. È una scommessa che chiama direttamente in gioco i cittadini: da una parte bombardati dai media di regime e da certe dichiarazioni strambe, dall’altra invita gli iraniani a esprimersi in futuro sulla scia delle rivolte contro il sistema del novembre scorso. Scoppiate contro un sistema – la mafia interna dei Pasdaran riprodotta all’esterno per muovere influenzala, la leadership teocratica e l’establishment che sono tutta narrazione e poca sostanza – che procede per inerzia, ma che ha dato diversi segnali di indebolimento.

Nel coronavirus un’opportunità. Per certi versi, la richiesta di aiuto all’Fmi va letta come un nuovo Jcpoa – l’accordo sul nucleare voluto nel 2015 dalla presidenza Rouhani per obliterare i conservatori. Se riesce è un regime change dall’interno che ha come vincitori le nuove generazioni iraniane, ottenuto con un costo carissimi, la perdita di sovranità in nome di una nuova considerazione internazionale e la potenziale sconfitta futura della teocrazia per come la conosciamo finora.

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