Chiese riaperte, il pontefice sospeso tra una preghiera a Santa Maria Maggiore e il richiamo all’attenzione per i migranti. Lo smarrimento di (alcuni) fedeli. La fede ai tempi del Coronavirus. Una chiacchierata con Camillo Langone, giornalista e scrittore, mette in luce manchevolezze, pregi e difetti di questa difficile circostanza. Soprattutto, la constatazione che, per la “cura” della fede, oggi, “mancano i Santi”.
La pandemia. La paura. Papa Francesco sostiene che ai tempi del Coronavirus non si debba essere come don Abbondio. Che valore attribuisce lei a questa frase pronunciata in incipit di Angelus dal pontefice?
Certamente i preti non devono rintanarsi nelle carestie. I cattolici in generale ma i preti, i religiosi, il clero in particolare. Vorrei vedere suore, frati e cardinali negli ospedali. Purtroppo non li vedo.
Come giudica la decisione di tenere aperte le chiese per le preghiere personali dei credenti?
È il minimo sindacale. Ci mancherebbe altro che le chiese chiudessero. Già la sospensione delle messe sembra l’anticipazione della fine del cattolicesimo in Italia. Non so come a emergenza finita tutto possa tornare come prima: come si farà a tornare a credere nell’acqua santa o nella presenza reale di Cristo nell’eucaristia, se queste cose sono state fatte scomparire in gran fretta, considerandole non salvifiche ma addirittura pericolose.
Proprio ieri, come riferisce Matteo Bruni, direttore della sala stampa vaticana, Papa Francesco ha lasciato il Vaticano in forma privata e si è recato in visita alla Basilica di Santa Maria Maggiore, per rivolgere una preghiera alla Vergine, Salus populi Romani. “Successivamente, facendo un tratto di Via del Corso a piedi, come in pellegrinaggio, il Santo Padre ha raggiunto la chiesa di San Marcello al Corso” per pregare per “la fine della pandemia”. Che tipo di significato ha questo gesto simbolico? Molti – piuttosto critici – l’hanno interpretato come un privilegio ingiusto.
È stato un gesto importante, necessario, ma la solitudine di quest’uomo vestito di bianco in via del Corso, più o meno imposta dalla circostanze, ha rappresentato icasticamente la rarefazione, quasi l’evaporazione del cattolicesimo: che è una religione e come tale vive di riti collettivi.
Azzardando un paragone tra il Borromeo di manzoniana memoria, pur con tutte le cautele e le differenze del caso, e il nostro Bergoglio, ravvisa potenziali differenze e/o analogie?
Mi sono appena riletto i capitoli manzoniani sulla peste e particolari analogie tra Borromeo e Bergoglio non ne ho trovate. Nemmeno fra Borromeo e Delpini. Non parliamo poi dell’abisso fra l’alto clero attuale e San Carlo Borromeo, che per sconfiggere la peste andò in processione a piedi nudi abbracciando una gran croce.
Cosa manca alla “cura” della fede, ai tempi del Coronavirus?
Mancano i Santi, appunto.
Come sta affrontando lei, sotto il profilo spirituale, questo lungo percorso?
In sostituzione delle messe, sospese, ho scoperto l’adorazione eucaristica. Che è qualcosa di meno della messa, ovviamente. Ma anche qualcosa di più, in termini di concentrazione e di rapporto intimo, personale con Cristo.
L’arresto forzato dalla vita frenetica può rappresentare un arricchimento per lo spirito in questi giorni?
Ex malo bonum” è un bel concetto che applico spesso ma stavolta, adorazione eucaristica a parte, faccio molta fatica. Io mi ritrovo scoraggiato, a causa dell’eclisse della Chiesa. Mentre il popolo italiano non lo vedo affatto spiritualmente arricchito, lo vedo piuttosto rimbambito, un asino tra i suoni, tra il panico mediatico e le fatuità puerili dell’andrà-tutto-bene, dei lenzuoli coi cuoricini alle finestre. Sentimentalismo e auto-idolatria.