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Bene lo smart working e il decreto Cura Italia ma… Parla il prof. Michel Martone

Il governo c’è, per il momento. Per una volta un’artiglieria adeguata. E così il maxi-decreto da 25 miliardi per l’economia e il lavoro ai tempi del coronavirus varato questa mattina dal governo, è la risposta per imprese e lavoratori che ci voleva. Non risolutiva, però ( 5 miliardi per gli ammortizzatori sociali, ma concessi  pro tempore, ovvero per 9 settimane). La vede così Michel Martone, già viceministro del Lavoro, docente di diritto del lavoro, scrittore e saggista, che a Formiche.net dà la sua personale opinione su un provvedimento che ha tutta l’aria di essere il primo di una serie.

Martone, lo hanno chiamato Cura Italia. Convinto?

Sì. Mi pare un provvedimento ricco senza dubbio e che mira a congelare la situazione, al fine di consentire alle persone di affrontare con serenità la quarantena. Ha un’anima universalistica, cerca cioè di raggiungere un po’ tutte le categorie con miure coerenti per quanto possibile. Più che un decreto per curare l’Italia mi sembra un decreto con cui rendere sostenibile la quarantena.

Però se allevia ma non cura vuol dire che la medicina deve ancora arrivare…

Le cure vere dovranno arrivare, il Paese avrà bisogno di ripartire. Questo è un buon provvedimento, ma dalla filosofia di contenimento non di guarigione.

Il governo ha previsto una Cig su larga scala per nove settimane. Costo 5 miliardi…

Sì ma è difficile prevederne l’ampiezza, è auspicabile che il tiraggio di questa Cig sia commisurato all’effettiva necessità: i lavoratori che sono in smart working devono poter continuare a lavorare in tale modalità, a distanza. Le risorse stanziare per la Cig sono importanti e individuate per un arco temporale definito. Questo vuol dire che il decreto in questione mira a sostenere il nostro sistema per una quarantena che si immagina possa durare fino a maggio. Poi occorrerà pensare al nostro rilancio.

Martone lei ha citato lo smart working. Non che abbiamo scoperto l’acqua calda, ma forse il mercato del lavoro sta cambiando per sempre?

Da un lato sì, l’esperienza di questi giorni dimostra che per lavorare non serve una struttura burocratica importante, si può lavorare tutti insieme con un pc. Chiarito che lo smart working è dunque fattibile, e in questi giorni ce ne stiamo accorgendo, ora bisogna pensare al dopo. Della serie, avremo una cultura dello smart working di lungo termine? Una preparazione tecnologica adeguata? Insomma un vero spirito da smart working?

Dovevamo aspettare il coronavirus per porci simili domande?

No, purtroppo. Sarebbe stato meglio pensarci prima, ma l’importante è essere in grado adesso di trasformare questa crisi in un’opportunità da sfruttare. Questa è la sfida.

Crede che dovremmo aspettarci una qualche forma di normativa ad hoc? Regole chiare, insomma…

Sì ma magari regole meno stringenti per lasciare spazio a una cultura dello smart working. Dobbiamo entrare nell’ordine di idee che la cultura dello smart working deve entrare nelle aziende e che gli stessi lavoratori devono superare la naturale diffidenza verso questo strumento. Meno regole e più cultura, se dovessi pensare a uno slogan.

Tre giorni fa si è andati molto vicini alla chiusura delle fabbriche. Avrebbe significato fermare del tutto il Paese. Lei sarebbe stato d’accordo?

Credo che i lavoratori italiani e le imprese stiano già dando un’ottima prova. Se è importante tutelare la salute dei lavoratori è anche vero che la loro salute dipende dalla condizioni delle stesse imprese. Un’interruzione drastica della produzione in tutti i settori sarebbe stata deleteria. Ora tutto dipende dai risultati di queste misure di contenimento che assicurano la continuità del sistema produttivo. Insomma se si riduce il contagio, ma questo lo vedremo nei prossimi 4 o 5 giorni.

Martone, il ministro dell’Economia Gualtieri ha più volte ribadito che nessun posto di lavoro verrà perduto per colpa del virus. Affermazione audace. O no? 

Diciamo che la vera domanda è un’altra. E cioè non tanto cosa accadrà tra nove settimane ma come ricreare quei posti di lavoro tra nove settimane. E magari coi soldi pubblici che saranno anche finiti.

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