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Quel mistero dell’aereo Cia sparito in Afghanistan. Il retroscena di Giannuli

Panorama Difesa”, nel numero in edicola, riposta una notizia che – complice il coronavirus che ha assorbito l’attenzione generale – era sfuggita ai più.

Come qualcuno ricorderà, il 27 gennaio scorso, in una zona montuosa dell’Afghanistan nella provincia di Ghazni, è precipitato un Bombardier E-11-A dell’aviazione americana (aereo di sorveglianza elettronica) causando la morte di piloti e passeggeri. Ma la notizia interessante non è questa.

La, anzi le notizie interessanti fornite dalla stampa russa e iraniana sarebbero queste. Punto primo: l’aereo non è caduto per cause naturali, ma perché abbattuto dai talebani che controllano la zona su cui stava volando. Secondo: a bordo dell’aereo, oltre che i piloti, c’erano passeggeri, fra cui Michael D’Andrea, leggendario agente della Cia, conosciuto con il nome di “Ayatollah Mike”, già responsabile, nel 2008, dell’uccisione di Imad Mughiniyah, capo militare degli Hezbollah. Terzo: D’Andrea, nominato da Trump nel 2018 capo delle attività antiterroriste in Iran, sarebbe stato il regista dell’attentato letale a Soleimani (d’altro canto, essendo il capo delle operazioni Cia per l’Iran è abbastanza logico che sia stato lui a sovraintendere ad un’azione di quel rilievo).

Che un episodio del genere sia accaduto tre settimane dopo la morte di Soleimani è indubbiamente una bella coincidenza, che solleva qualche dubbio. Ma ancora più forti si fanno i sospetti di fronte alla reazione del Pentagono che non ha smentito la notizia e si è limitato a dare nome e matricola dei due piloti periti nell”incidente”, senza far parola su eventuali passeggeri e limitandosi a dire di non avere elementi per stabilire la causa della caduta dell’aereo, se per incidente o per fuoco nemico. Peraltro, di D’Andrea non ci sono notizie di sorta.

Certamente i talebani non sono affatto amici degli iraniani, anzi. Però sono sicuramente nemici degli americani, e un obiettivo del genere non può che fargli gola. Non è da escludere dunque che gli iraniani abbiano fornito le informazioni giuste per l’azione. In contesti di questo tipo non è difficile avere momentanee intese contro un nemico comune e, peraltro, un “favore” così non si nega a nessuno.

Se tutto questo trovasse conferma, ne ricaveremmo che la promessa iraniana di una rappresaglia vera, dopo la sceneggiata dell’8 gennaio, non era solo una sparata propagandistica ma preannunciava qualcosa di serio. In secondo luogo, l’episodio conferma che, nelle guerre coperte, aggredito ed aggressore sono alleati nel nascondere le notizie all’opinione pubblica e a terzi interessati: gli iraniani hanno compiuto la propria vendetta ma non se ne sono vantati, gli americani hanno incassato il colpo senza battere ciglio e senza nemmeno dare la notizia della morte del loro agente. Tutto come vuole la prassi.

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