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Coronavirus, il pericolo adesso è la stagflazione. L’analisi di Federico Carli

“È molto difficile produrre una stima attendibile della dimensione della recessione a cui sta andando incontro l’Italia, per il cedimento della domanda e dell’offerta aggregate innescato dal lockdown”, spiega l’economista Federico Carli in quest’intervista a Formiche.net. “L’incertezza sulla durata delle misure restrittive adottate dal governo rende complicato effettuare il calcolo delle loro conseguenze su un’economia che già prima dell’emergenza sanitaria era avviata a chiudere l’anno con il segno meno”.

Ma si può fare una stima di quanto ci sta costando il lockdown?

All’impatto diretto del lockdown sui settori direttamente coinvolti nella chiusura dell’attività, occorre aggiungere gli effetti demoltiplicativi che si trasmetteranno da settore a settore e gli effetti che la minore domanda estera eserciterà sulle nostre esportazioni. Rischiando e sperando di essere smentito dai fatti, ritengo che andiamo incontro a un crollo di Pil di 7 punti percentuali e non mi stupirei se la contrazione fosse a due cifre.

È stata la scelta giusta? Quanto può reggere la nostra economia?

Forse avremmo potuto agire con maggiore decisione all’inizio per stroncare la diffusione dell’epidemia e accorciare la durata della chiusura delle attività, ma questo è facile a dirsi adesso. Siamo stati il primo Paese occidentale a doversi confrontare con il Covid-19, quindi bisogna riconoscere che non era semplice assumere le decisioni giuste nel modo giusto. Dobbiamo tenerne conto e dobbiamo riconoscere che qualche sbavatura nell’azione governativa di contrasto al coronavirus è comprensibile. La capacità della nostra economia di reggere allo shock Covid-19 dipenderà dai provvedimenti che il governo e l’Unione Europea sapranno adottare, con decisione e con efficacia. Questo è il banco di prova su cui giudicare le nostre istituzioni e le istituzioni di Bruxelles.

Adesso il vero rischio è l’inflazione?

Sì, è possibile che nelle prossime settimane si manifesti un problema che sembrava dimenticato in Europa e di cui nessuno parla oggi: l’inflazione. Oltre che per la disabitudine, credo che si sottovaluti questo rischio per un errore di valutazione che risiede nell’idea che l’inflazione sia incompatibile con un contesto recessivo e di disoccupazione crescente. Tuttavia la situazione non è così semplice. L’effetto sui prezzi della crisi è incerto: ci sarà stagflazione (disoccupazione/recessione + inflazione) se la caduta dell’offerta supererà la caduta della domanda e se le “strozzature” settoriali saranno diffuse, soprattutto nei comparti merceologici di cui ci sarà maggiore richiesta. E il governo non può farsi trovare impreparato, non solo perché l’inflazione potrà rendere ancora più complesso il problema economico che esso è chiamato a risolvere ma perché essa metterà a rischio la tenuta sociale del Paese.

Si paventa una situazione come negli anni Settanta con il crollo del prodotto, alta disoccupazione e aumento dei prezzi?

Esattamente: così come negli anni Settanta lo shock petrolifero determinò una lunga coesistenza tra alta disoccupazione e alta inflazione, non possiamo escludere che questo scenario si presenti di nuovo. Stavolta però non potremo reggere a lungo, perché la società italiana è sfibrata e l’inflazione tenderebbe ad aprire squilibri tra classi di cittadini e tra regioni inaccettabili.

In tutto questo che fine hanno fatto i solidarity bond da lei proposti?

Non mi stancherò di ripetere che l’emergenza sanitaria, gravissima di per sé, ha messo in luce problemi già esistenti e già evidenti a chi avesse voluto vederli ben prima che il coronavirus ci colpisse: la debolezza dell’economia italiana, la fragilità dei suoi assetti istituzionali, lo scollamento della società, che era già vicina a un punto di rottura quando l’epidemia era un evento inimmaginabile. Soprattutto, ha messo in luce l’incompiutezza e l’inadeguatezza attuali dell’Ue. In questa cornice deve essere inquadrata la proposta dei “solidarity-bond” e fatta propria dal nostro governo che l’ha formalmente avanzata in sede europea.

Quale è la sua visione su questo aspetto?

Il punto è duplice: 1) far affluire risorse all’economia reale, segnatamente agli investimenti di cui c’è evidente bisogno dopo la spinta contenitiva degli ultimi anni; 2) rivitalizzare su nuove basi il disegno europeo. I “solidarity-bond” costituiscono uno strumento tecnico che ha un obiettivo politico: rilanciare un’Europa carente e ingessata, che, di fronte alla crisi del coronavirus, ha manifestato tutti i suoi limiti e rischia la disgregazione. Essi sono pensati per consentire il finanziamento di indispensabili piani d’investimento senza gravare sul debito dei singoli Stati e per dare un impulso affinché le istituzioni di Bruxelles e i governi dei Paesi membri tornino a ispirare le proprie azioni secondo i principi della solidarietà, della cooperazione e della sussidiarietà. Sotto il profilo strettamente economico, queste obbligazioni di scopo, volte a finanziare investimenti per l’adeguamento delle strutture sanitarie europee, insieme con l’introduzione della “golden rule”, altro obiettivo di cui il governo italiano deve farsi portabandiera, mirano a distinguere tra spese correnti e spese in conto capitale affinché solo le prime siano assoggettate ai vincoli di bilancio stabiliti dall’Ue.

Bini Smaghi sostiene che si fa presto a dire eurobond: per farlo bisogna accettare di trasferire le proprie competenze economiche e sociali in Europa… E poi che bisogna sbloccare immediatamente il Mes. È d’accordo?

Il punto è politico, non tecnico. Pensare di far evolvere la costruzione europea attraverso l’istituzione progressiva di meccanismi tecnici, prevalentemente orientati a regolamentare i mercati bancari e finanziari e i bilanci pubblici degli Stati, è un errore mortale. Continuare a discutere nelle sedi ufficiali e quindi, inevitabilmente, sulla stampa di Mes, Fondo salva-Stati, Basilea4, Patto di Stabilità, 3%, MiFID3, ecc. porterà alla liquefazione dell’Unione Europea. Penso che questo non sia il momento più opportuno per spingere avanti negoziazioni tecniche su meccanismi che suscitano la preoccupazione di larghi strati dell’opinione pubblica di diversi paesi; i solidarity-bond possono essere tranquillamente emessi dalla Bei, non c’è bisogno di forzare la mano sul Mes in questo momento. Lo stesso nome “Fondo salva-stati” evoca una battaglia di retroguardia e non un piano di largo respiro volto a promuovere il progresso delle Nazioni d’Europa, ritengo che il linguaggio sia più importante di quanto normalmente si pensi perché la forma è sostanza. Iniziamo, noi tutti, a modificare il linguaggio e a utilizzare frasi che mostrino l’esistenza di una visione nuova, in grado di scaldare i cuori intorno a progetti alti. Apriamo piuttosto un tavolo ufficiale di discussione volto a dirimere quale sia la “direzione di marcia che i popoli europei intendono percorrere” affinché ne scaturiscano sviluppo, coesione e stabilità.

E all’ex premier Mario Monti che pensa alla possibilità di una patrimoniale, cosa risponde?

Ero contrario alla patrimoniale prima dello scoppio di questa crisi, sono contrario alla patrimoniale adesso. A me sta a cuore innanzitutto la tenuta sociale dell’Italia e individuare gli strumenti atti a sostenere l’economia reale: imprese, lavoratori, famiglie. Credo che l’ossessione per le compatibilità finanziarie, non scevra di una vena moralistica abbia già prodotto molti danni nel recente passato. Nel 2011-12, Mario Monti era al governo, l’Italia precipitò in una grave recessione: fu il crollo dei consumi a trascinare giù gli investimenti e il Pil, un caso con pochi precedenti nella storia economica occidentale. Ora siamo già in recessione, non mi sembra opportuno arrovellarsi su come provocarne un’altra.



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