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Pericolo scampato (per ora). Perché Huawei fa traballare Boris Johnson

Brividi a Downing Street. La rivolta di un gruppo di parlamentari Tories contro il governo conservatore di Boris Johnson sulla partecipazione della cinese Huawei alla rete 5G non è andata in porto, per ora. Guidato da un pivot di 4 ex ministri, l’ex segretario alla Brexit David Davis, l’ex segretario per il Lavoro Duncan Smith, Owen Paterson e Damian Green, già segretario all’Ambiente e all’Agricoltura e primo segretario di Stato, il drappello di deputati Tories ha cercato di far passare ai Commons un emendamento alla legge per le Telecomunicazioni che prevedeva l’esclusione dalla banda larga, a partire dal 31 dicembre 2022, delle compagnie certificate dal National Security Cyber-Security Center come vendors “ad alto rischio”, dunque in primis Huawei.

Niente da fare, l’emendamento non è passato, con un margine contenuto, ma non trascurabile: 306 no contro 282 sì. Nei giorni precedenti quella che da più parti è stata definita un’ “imboscata” a Johnson i promotori dell’iniziativa si erano detti fiduciosi di avere dalla loro la maggioranza, contando su un ampio fronte di discontento interno al partito per la legge introdotta dal governo di BoJo che permetterà a Huawei di partecipare, sia pur con importanti restrizioni (nessun accesso alla rete 5G core, accesso al 35% della parte non-core), alla costruzione e implementazione della rete 5G inglese.

Il blitz è fallito dunque per 24 voti, nonostante l’endorsement dei Labour di Jeremy Corbyn e soprattutto del ministro-ombra alla Tecnologia del partito, la deputata Chi Onwurah, meno radicali sul 5G made in China rispetto ai Tories “ribelli” ma ben disposti a dare una spallata a Downing Street per riscattare la cocente sconfitta alle urne. Come anticipato su Formiche.net, l’emendamento aveva il supporto aperto di un fronte bipartisan di senatori e democratici americani, da Ted Cruz a Charles Schumer, intenti a ricucire i rapporti fra Washington e Londra dopo lo strappo di Johnson sul 5G che ha raggelato i contatti con la Casa Bianca di Donald Trump.

Pericolo scampato per BoJo? Non del tutto. Quella che a prima vista sembra una sconfitta a uno sguardo più attento non lo è. Non era scontato, ad esempio, che ben 26 Tories votassero l’emendamento. E chi conosce da vicino il Partito conservatore sa che il fronte di parlamentari allergici alle politiche filo-cinesi del civico 10 è ben più ampio di chi si è esposto questo martedì a Westminster. In effetti, secondo fonti della Bbc, il numero di firmatari dell’emendamento non corrisponde al reale numero dei ribelli, che ammonterebbe invece a 38 (36 avrebbero votato contro, 2 si sarebbero astenuti ma avrebbero fatto da tellers, convincendo altri a votare). Se così fosse, Johnson avrebbe poco di che esultare.

Lo ha fatto capire alla vigilia uno degli ideatori del piano, il Tory a capo della Commissione Affari esteri dei Commons Tom Tugendhat. In un editoriale sul Times, ha elencato i motivi per cui i dissidenti nel partito non molleranno la presa su Huawei. “Non parliamo di tappe, ma di una direzione. Dobbiamo vedere una direzione verso lo zero”. Poi, un appunto eloquente: “Negli scorsi 18 mesi ho perso il conto di quanti nel governo, inclusi alcuni di quelli che sedevano al tavolo del National Security Council per prendere la decisione sulla presenza di Huawei nella nostra rete 5G, abbiano parlato in privato dei rischi che stiamo correndo”. Tra questi, ha ricordato Tugendhat, c’è quello di incrinare i rapporti con i “Five Eyes”, la coalizione di 5 Stati (Uk + Usa, Canada, Nuova Zelanda e Australia) legati da un accordo di condivisione di intelligence che ora rischia di saltare.

Altri Tories, naufragata l’iniziativa, si sono mostrati tutt’altro che sconfitti. “È stata una forte, prima entrata di scena” ha twittato beffardo uno dei ribelli, Bob Seeley. “Sempre più Tories vedranno la Cina come una minaccia strategica nei prossimi dieci anni? – si è chiesto su twitter James Forsyth, giornalista dello Spectator – Credo che l’unica risposta sia sì. La ribellione anti-Huawei di oggi dovrebbe essere considerata l’inizio di qualcosa”.

A Downing Street il messaggio è arrivato “forte e chiaro”, per dirla con il ministro della Cultura Matt Warman. Spedito in questi giorni in trincea da Johnson per tentare, senza successo, di sedare i ribelli, già pochi minuti dopo il fallito assalto alla diligenza il ministro si aggirava per l’aula a fare il pompiere fra i colleghi di partito, promettendo un più stretto controllo del governo su Huawei ma non un bando totale.

La mediazione è, ancora una volta, caduta nel vuoto. La pattuglia anti-Huawei fra i Tories, guidata da una figura di primo piano nonché ex presidente del partito come Duncan Smith, continuerà a dar filo da torcere a BoJo. E, si vocifera, ha dalla sua un’intera fetta del mondo imprenditoriale, che quel partito finanzia profumatamente, ed è sempre più allergica alle mosse filo-cinesi del governo, che allontanano l’alleato, ma soprattutto il mercato statunitense.



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