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L’Italia guidi la primavera di una nuova Europa. L’appello di Fedeli e Pittella

Di Valeria Fedeli e Gianni Pittella

La Cancelliera Merkel pochi giorni orsono, con realismo, e senza neanche troppa retorica, definisce la lotta alla propagazione del virus come la sfida più impegnativa dalla Seconda guerra mondiale.

Parafrasando la leader di una delle nazioni che ha maggiori responsabilità nel recente declino del progetto europeo, potremmo dire allo stesso modo che la sfida che il virus pone all’Unione europea è senza dubbio la più difficile da quando, alla fine della Seconda guerra mondiale, alcune straordinarie figure politiche vi diedero vita.

Il modo in cui rispondiamo oggi all’emergenza e risponderemo domani nella ridefinizione del patto fondativo tra gli Stati che la compongono, ci dirà se il progetto europeo ha ancora ragione di integrazione o se le spinte centripete avranno la meglio una volta per tutte.

Primum vivere. Dopo i tentativi di un approccio minimale o burocratico (concediamo qualche sforamento e appostiamo qualche risorsa) o in qualche caso inopinatamente speculativo (la Lagarde e lo spread) della tragedia italiana, il sentimento generale tra i Paesi europei sembra cambiato.

Vi hanno contribuito due grandi fattori. La risposta italiana finalmente orgogliosa e politicamente serrata, la fermezza del governo, il richiamo del Quirinale. La propagazione senza quartiere del virus in ogni parte d’Europa, nelle regioni, nei confini delle nazioni che osservavano l’Italia come un grande appestato, pensando di essere immuni al contagio virale e alle drammatiche sue conseguenze anche economiche.

In queste ore si fa strada ciò che chi scrive auspicava da tempo, nelle aule del Parlamento, nelle riflessioni pubblicistiche: una azione combinata, congiunta e straordinaria di Commissione e Banca Centrale.

La Banca Centrale Europea, dopo la scivolata non colposa ma colpevole iniziale, attiva una grande operazione difensiva e offensiva nei confronti della crisi.

Difensiva attraverso il suo ramo monetario che mette in conto 750 miliardi di acquisti di titoli pubblici e privati capaci di raffreddare il differenziale tra i titoli dei Paesi sotto maggiore pressione rispetto a quelli meno esposti. Offensiva perché di ieri è l’annuncio che il ramo vigilanza immette 120 miliardi di euro nel sistema bancario, consentendo alle banche dell’Unione di non rispettare i requisiti di capitale previsti nel cosiddetto secondo pilastro per ripianare perdite e per finanziare fino a 1800 miliardi di prestiti a famiglie e imprese. E a questa notizia si aggiunge una dichiarata maggiore flessibilità nel trattamento dei crediti deteriorati (Npl) in pancia alle banche.

La Commissione, per parte sua, ed è corretto riconoscerlo, aveva da subito mostrato, per quanto non con l’attuale determinazione,una sincera, fattiva e solidale preoccupazione e anche, da parte della presidente Ursula von der Layen, una capacità di lettura politica non comune.

L’attivazione formale della clausola di sospensione del Patto di Stabilità è la risultante di questa consapevolezza. Permetterà di liberare risorse, consentendo all’Italia e via via ai Paesi che si troveranno nella medesima condizione di disapplicare le regole di bilancio sul debito. Il patto di stupidità, come a volte lo avevamo definito perché incapace di adattarsi ai cicli economici e perché poco orientato all’altro aggettivo che in abstracto lo contraddistinguerebbe nel patto, la crescita, viene accantonato e gli fa il paio la flessibilità sugli aiuti di stato e la restituzione all’Italia di 11 miliardi di euro di fondi strutturali inutilizzati e che, svincolati nell’uso, potranno essere impiegati nel sostegno alle Pmi e nelle politiche di contrasto alla disoccupazione.

Una potenza di fuoco importante, non sufficiente, ma essenziale per reagire a quello che gli analisti immaginano come un crollo rovinoso del Pil italiano dell’8% nel primo semestre e del 3% e oltre in termini annuali. Decrescita che colpirà inesorabilmente l’intero continente.

Ma non basta. Sosteniamo da tempo che solo gli Eurobond possono rappresentare una vera svolta anche di natura politica, essenziale a ridare slancio non solo all’economia ma al progetto europeo, in quanto obbligazioni emesse dai singoli Stati nazionali ma garantite da tutti i Paesi dell’Unione.

A differenza dei normali titoli di Stato, non sarebbero infatti garantiti da un singolo Stato (l’Italia per i Btp, la Germania per i Bund) ma da tutti gli Stati che hanno adottato l’euro. Sarebbero quindi più sicuri anche del Bund tedesco e potrebbero eliminare le penalizzazioni che affliggono gli Stati più deboli dell’Unione europea e che prendono la forma dello spread.

La messa in comune del debito a nostro avviso resta l’obiettivo a lungo raggio di una Unione politica degna di questo nome, ma gli Eurobond possono rappresentare un primo passo verso un’integrazione qualitativamente più elevata.

I tedeschi e i Paesi germanofili, per i quali debito e colpa sono in realtà rappresentati dalla stessa parola, schuld, ne sono stati per molti decenni i fieri avversari ma oggi la stessa Merkel sembra lentamente aprire a questa possibilità e la von der Layen vi fa esplicito cenno.

Consentiteci però ancora una volta di fare da Cassandra e quindi sottolineare per tempo i possibili inconvenienti se i bond, li si chiami coronavirus bond o solidarity bond o bond di scopo piuttosto che healthy bond, contengano precauzionalità che rischiano di avvelenare i pozzi.

Sebbene sia comprensibile, almeno in questa fase, vincolarli all’emergenza sanitaria in corso, non è accettabile che attraverso il Mes si imponga all’Italia una condizionalità sulla sostenibilità del debito.

Le parole dei banchieri centrali tedeschi e olandesi Weidman e Knot, la “crisi è una purificazione”, quelle del premier olandese Rutte che parla di “default pilotato” o quelle non dissimili dell’austriaco Holzmann contengono infatti il rischio che gli Eurobond diventino il cavallo di Troia del “salvataggio” dell’Italia, alla maniera greca. Ed è superfluo aggiungere altro.

Solo se questa crisi segnerà una svolta nell’identità dell’Unione potremo immaginare di superare davvero il guado, ritrovare prosperità, costruire un meccanismo di solidarietà efficace di fronte alle crisi che verranno.

E per farlo serve un nuovo patto fondativo, la cui parola d’ordine sia sicurezza, nuovamente intesa.

La sicurezza è per sua etimologia “sine cura”, assenza di preoccupazione, uno stato fisico, psicologico, economico e sociale in forza del quale si trasferisce alla collettività, alla comunità, l’onere dei rischi di una evoluzione indesiderata.

Perché l’uomo costruisce una comunità organizzata, lo Stato?

Per un bisogno di sicurezza, perché pensa che i propri bisogni primari possano essere meglio assicurati da una collettività strutturata che riduca i rischi connessi al vivere individuale e sociale.

Per questo, in fondo, è nata anche la Comunità europea, perché mettere in comune il carbone e l’acciaio, l’energia atomica e dipoi costruendo un mercato privo di dazi e con tariffe dogali comuni nei confronti dell’esterno, sarebbe stato un antidoto alla guerra e un viatico di prosperità e pace.

E tutto il processo di integrazione europeo si è realizzato su questa linea di indirizzo, aumentare la cessione di sovranità per condividere i rischi.

Ma quanto fragile è l’architettura della casa comune europea lo scopriamo adesso nitidamente, quanto insicura nelle sue fondamenta.

Presi dai pilastri dell’Unione monetaria, abbiamo dimenticato o sottovalutato che altre sfide di sicurezza si ponevano innanzi a noi, sanitaria, sociale, economica.

Abbiamo bisogno di un servizio sanitario comune, contrassegnato da standard europei indefettibili di qualità nell’assistenza, universale e pubblica e nella gestione delle emergenze.

Abbiamo bisogno di un’Europa che faccia della prevenzione e della ricerca in materia di salute degli individui un suo obiettivo centrale, che abbia su scala continentale l’autonomia piena nella produzione e nella distribuzione di presidi di protezione per la salute, di accertamento diagnostico, di cura farmacologica. Prevenzione, ricerca, cura politiche comuni dotate di grandi risorse.

Abbiamo bisogno di un’Europa che definisca obiettivi di tutela del lavoro attraverso una contrattazione collettiva europea che non consenta dumping nello sfruttamento della manodopera e nell’abbassamento della dignità dei prestatori di lavoro.

Abbiamo bisogno di una voce unica e determinata nelle grandi crisi internazionali.

Abbiamo bisogno di un’Europa che cresca negli investimenti nelle grandi infrastrutture materiali e immateriali, nelle energie alternative e della banda larga, nella riconversione all’industria green, nell’istruzione e nei saperi.

E abbiamo la grande occasione per ricostruire dalle fondamenta la casa comune, ridandovi anima politica: la Convenzione europea.

Quell’appuntamento che già nelle intenzioni doveva rappresentare nei prossimi mesi un’agorà di discussione sul futuro dell’Unione, diventi subito qualcosa di più, molto di più.

Superata l’emergenza coronavirus, serve un nuovo patto costituente, non una semplice discussione con la sedimentazione di proposte. Serve un atto nuovo, di rottura e di slancio verso il futuro: la riscrittura dei Trattati in chiave tendenzialmente federalista.

Siano il Parlamento e il governo italiano, quando la contabilità del dramma si sarà arrestata, alfieri del nuovo corso.

È il destino di un grande Paese fondatore come il nostro, mettersi alla guida di una nuova primavera di libertà, di democrazia, di prosperità e pace in Europa.


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