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Peter Pham e la strategia del dipartimento di Stato Usa per il Sahel (e l’Africa)

Il dipartimento di Stato americano ha annunciato ieri che da qualche giorno è al lavoro un nuovo inviato speciale: si tratta di Peter Pham e ha l’incarico di focalizzare la sua attenzione sulla Regione dei Grandi Laghi in Africa. Se si aggira la nomenclatura che la dottrina americana affida all’area, la regione in questione è il Sahel, ossia la fascia dell’africa sub-sahariana tra il Tropico del Cancro e l’Equatore, dal Mar Rosso all’Atlantico. La nomina di Pham è la conferma dell’estrema attenzione che una parte degli apparati degli Stati Uniti sta ponendo sul quel territorio che brulica di gruppi jihadisti di vario genere – e che probabilmente sta facendo anche da zona di protezione per le spurie dello Stato islamico fuggite a fine 2016 dalla distrutta statualità di Sirte, in Libia.

Washington ha stretto la collaborazione con i partner africani. Ha avviato una presenza costante in alcuni Paesi come il Niger, il Camerun, la Nigeria, il Mali, la Mauritania. E ha strutturato una rete di cooperazione con altri Stati come per esempio la Tunisia, che soffrono a distanza le ripercussioni di quell’area instabile dell’Africa. Le attività sono svolte in prospettiva counter-terrorism, spesso in accoppiata con alleati locali – in Niger ci sono anche gli italiani, in Mali e Mauritania i francesi.

I gruppi terroristici della regione sono collegati per tradizione ad al Qaeda. Sono strutturati come organizzazioni jihadiste combattenti, ma hanno interessi più ampi. Violano la sacralità professata per confondere le proprie attività con quelle del mercato clandestino per esempio, o del narcotraffico. Sono responsabili di rapimenti, si muovono senza controllo territoriale, ma come una mafia diffusa. Alcune di queste realtà nel tempo hanno subito la fascinazione del Califfato, per esempio la nigeriana Boko Haram, uno dei gruppi più grandi e strutturati, anni fa giurò fedeltà al Califfo – mantenendo comunque una propria autonomia.

La presenza delle organizzazioni terroristiche indebolisce le istituzioni dei paesi locali, rendendo quelle aree ingovernabili. Alimentano continuamente la violenza etnica. Attacchi in Mali, Niger, Mauritania e Burkina Faso sono cresciuti negli ultimi due anni, nonostante Paesi come la Francia abbiano avviato al 2014 una presenza costante e operativa – la missione francese si chiama Barkhane e conta attualmente su più di quattromila uomini. La situazione è particolarmente critica, tanto che il capo di Africom – il comando che copre il quadrante per la Difesa Usa – ha comunicato che attualmente la strategia generale è passata dall’indebolimento al contenimento dei gruppi.

Come su molti dossier però, all’interno degli apparati statunitensi si muovono dinamiche diverse, talvolta opposte. Mentre il dipartimento di Stato nomina un inviato speciale, sinonimo di grande interessamento, il Pentagono si muove su un territorio delicato, mentre a Capitol Hill è in corso un braccio di ferro con la presidenza. La Casa Bianca è intenzionata ad avviare un ritiro da molti dei territori in cui è impegnata direttamente, dunque anche l’Africa, per avviare quello che alcuni studiosi definiscono “controllo da remoto”. Ma diversi consiglieri, così come i segretari di Esteri e Difesa, stanno cercando di mantenere in piedi la struttura dell’impegno esterno – tra cui quello africano – che è considerata poco costosa e con ottimi risultati. Limitazione del terrorismo, addestramento delle truppe locali (insieme a francesi e italiani, ma anche inglesi, olandesi e austriaci), presenza per anticipare la competitività di potenze rivali.

La questione delle presenza africana in effetti non riguarda soltanto la lotta al terrorismo, ha un altro genere di valore strategico. La Cina attualmente ha più ambasciate in Africa degli Stati Uniti, 52 contro 49, e questo significa che Pechino ha intenzione di muovere relazioni e dinamiche politiche tra i paesi africani. Azioni che si traducono in interessi diretti di vario genere e tornaconti indiretti, i cui dividendi arrivano spesso sotto forma di appoggi all’interno dei meccanismi multilaterali internazionali – per esempio, nell’importante voto per il presidente dell’agenzia dell’Onu che si occupa di proprietà intellettuale, diversi Paesi africani hanno preferito il candidato cinese rispetto a quello odi Singapore, sostenuto dagli Usa (poi vincente).

Sul mantenimento dell’impegno africano stanno facendo pressioni anche gli alleati, in primis il francese Emmanuel Macron, che recentemente ha trattato l’argomento in una conversazione telefonica con Donald Trump. La Francia di fatto guida l’impegno anti-terrorismo nel Sahel, però si appoggia alle informazioni di intelligence americane, e con gli Usa condivide la catena logistica. Ma sono anche i Paesi africani che chiedono agli Stati Uniti di non essere abbandonati. “Qualsiasi riduzione della presenza militare degli Stati Uniti nell’Africa occidentale avrebbe conseguenze negative reali e durature per i nostri partner africani”, ha dichiarato lo scorso mese il senatore James Inhofe, repubblicano trumpiano dell’Oklahoma a capo del Comitato dei servizi armati.

Nei giorni scorsi Foreign Policy ha ottenuto la bozza di una legislazione chiamata “US-Africa Strategic Security Act” con cui un gruppo di legislatori bipartisan vorrebbe impedire all’amministrazione di tagliare i fondi – e dunque il numero degli operativi – di cui Africom dispone nell’area. Il Congresso vorrebbe aver prima una valutazione effettiva dal Pentagono sulle conseguenze del ritiro, e poi esprimere le proprie valutazioni. Mark Esper, il segretario alla Difesa, ha più volte affermato che l’eventuale rimodulazione non si porterà dietro un ritiro completo, ma i congressisti temono che nel quadro di riassetto delle truppe americane verso “la competizione di potenze”, ossia contro Russia e Cina, si tralascino dossier come quello africano.

Un controsenso, se si considera la doppia valenza – terrorismo e strategia – dell’impegno. E il recente arrivo in Senegal per un seminario di addestramento di alcuni uomini del 1st Security Assistance Brigade non è sembrato molto rassicurante. “Qualsiasi ritiro o riduzione [in Africa] comporterebbe probabilmente un’impennata di violenti attacchi estremisti nel continente e inoltre aumenterebbe l’influenza geopolitica di concorrenti come la Russia e la Cina”, hanno scritto in una lettera indirizzata a Esper i senatori Lindsey Graham, repubblicano che fa consigliere informale di Trump sulle questioni internazionali, e Chris Coons, un democratico. Qualcosa di simile a quanto succede con il Medio Oriente, in particolare con la Siria (e com l’Afghanistan).

(Twitter, @USAfricaCommand, la 1st Security Assistance Brigade in Senegal)

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