Il delegato delle Nazioni Unite per la Libia, Ghassan Salamé, si dimette. Via Twitter spiega che dopo oltre due anni di attività ha chiesto di essere esonerato dall’incarico. “Per due anni ho cercato di riunire i libici, frenare le interferenze esterne e preservare l’unità del Paese”, ma aggiunge: “Ora che la mia salute non consente più questo ritmo di stress ho chiesto al segretario generale di rimuovermi dall’incarico, sperando nella pace e stabilità per la Libia”.
Salamé ha costruito il percorso negoziale sfociato nella Conferenza di Berlino di gennaio, quella su cui si basa un flebile cessate il fuoco – in realtà continuamente violato dagli attacchi che il signore della guerra dell’Est, Khalifa Haftar, continua a portare avanti nel tentativo mai mollato di conquistare Tripoli. La campagna militare sta entrando nell’undicesimo mese, e anche oggi la tregua è stata violata nell’hinterland meridionale della capitale.
Nel suo addio ha denunciato la presenza di attori esterni che interferiscono nella crisi libica. A cominciare dagli Emirati, che sul lato haftariano hanno spinto e finanziato con l’Egitto il conflitto fin dall’inizio, fornendo supporto militare al capo miliziano ribelle. E poi c’è la Turchia, che da due mesi si è posta come difensore della Tripolitania, sfruttando la crisi libica per giocare influenze sul Mediterraneo e per portare avanti una guerra proxy intra-sunnita contro Abu Dhabi e il Cairo (con sullo sfondo le rispettive interpretazioni dell’Islam).
Salamé non ha avuto vita facile. Una fonte dal lato tripolino del conflitto ci fa notare che ormai aveva perso gran parte del suo (“scarso”) appeal, ed “erano più quelli contrari al suo lavoro che i favorevoli”. Una posizione difficile in cui l’inviato onusiano s’è trovato praticamente da sempre. Le sue mosse sono state spesso boicottate dai principali attori libici, e altrettanto spesso c’è stato disinteresse per le sue iniziative, a volte è stato disprezzato.
Sentimenti che più che altro sono arrivati dalla Cirenaica, dove le forze militari e politiche che si sintetizzano dietro ad Haftar considerano le decisioni dell’Onu come avverse – anche perché sono state le Nazioni Uniti a insediare a Tripoli il Governo di accordo nazionale guidato da Fayez Serraj, che Haftar sta cercando di rovesciare dal 4 aprile scorso.
L’annuncio sulla decisione di Salamé, per chi segue il dossier libico, è tutt’altro che sorprendente. Tra l’altro venerdì scorso i colloqui del sistema 5+5 – quello composto da cinque delegati della Tripolitania e altrettanti dalla Cirenaica – si sono chiusi a Ginevra con un nulla di fatto. L’Onu ha attivi tre canali negoziali: uno economico, uno militare e l’altro politico. Il dialogo sul profilo economico della crisi sta andando bene, ha spiegato Salamé, ma il piano militare no e questo sta mettendo in crisi la possibilità di creare un percorso politico.
Appuntamento al prossimo mese, quando forse Salamé – ideatore del tavolo negoziale – non ci sarà già più e l’Onu potrebbe dover ricominciare d’accapo tutti i sistemi di relazioni costruiti in questi ultimi mesi. Salamé, ex ministro della cultura libanese e accademico di SciencePo, era entrato nel 2017 nel processo libico con un piano di pace che però è stato abbandonato dallo scorso anno. Rispetto ai suoi due predecessori è rimasto in carica più tempo, nonostante la sua strategia fosse saltata.