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Non è l’ora di un dolciastro “vogliamoci bene”. Parola di Civiltà Cattolica

C’è un universo di fede che si rispecchia in sguardi o condotte melensi, potremmo dire “asessuati”. Un altro invece, da noi meno noto ma in arrivo, ama l’aggressività, i toni minacciosi. Così non può non strappare l’interesse la tesi che espone sul nuovo numero de La Civiltà Cattolica, che verrà pubblicato domani, padre Daniele Libanori: “Non mi pare che questo sia il tempo delle pur utili esortazioni sull’eco del ‘vogliamoci bene’. La vera carità, che è dovuta a tutti e specialmente a chi maggiormente avverte la gravità della situazione, non ha niente a che fare con stucchevoli sorrisi, carezze affettate, pacche sulle spalle e minestre calde. Il mondo si aspetta dalla Chiesa ben altro che il pronto soccorso dell’elemosina: si aspetta delle ragioni che aiutino ad accettare e vivere con maturità quello che sta succedendo, ha urgente necessità di motivi seri per sperare, ha bisogno di qualcuno capace di aprirgli orizzonti diversi e veri, perché il telone di fondo sul quale per anni sono stati proiettati i deliri di grandezza di questa nostra età è stato improvvisamente strappato e ha svelato un buio angosciante.”

Dunque basta con quel mondo dolciastro, dai sorrisini che non dicono mai niente perché in realtà non possono dire niente? È questa la tesi dell’autore? Alla partenza la risposta può apparire la solita: “La Chiesa deve ripetere instancabilmente a chi oggi, frastornato da quello che accade, cerca ‘la’ buona ragione per vivere e per morire che la può trovare nella morte e risurrezione di Gesù”. E dunque? Qualcosa si capisce subito dopo quando, sempre riferendosi alla Chiesa, l’autore la sollecita così: “E deve aggiungere che se quest’anno non potremo celebrare la Pasqua nella liturgia, non di meno è il Signore stesso che la sta celebrando nella grande liturgia della storia che ci chiede di vivere con lui in questi giorni difficili”. Un Dio che vive nella storia richiede una Chiesa che fa altrettanto. O forse Dio torna il Dio vendicativo, cattivo, pronto a punirci magari per costumi lassi? Non era questo il sistema di lettura dell’Antico Testamento? Basta la citazione del libro di Giobbe per capire che l’autore intende andare proprio altrove: “La Bibbia si interroga sul dolore innocente: il libro di Giobbe è una riflessione sul mistero del male che colpisce il giusto. In quel dramma, la risposta tradizionale, sostenuta dagli amici che vorrebbero consolare Giobbe, portandolo a riconoscere una colpa inesistente, non regge”.

Dunque la volontà divina va riconosciuta nella richiesta non semplice di pensare in modo nuovo? L’autore risponde con esempi noti. Il primo parla del fallimento: “Gli uomini si dissero l’un l’altro: Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra (Gen 11,4). Secondo il racconto biblico, gli uomini sono rappresentati in modo molto somigliante agli ebrei quando erano schiavi dell’Egitto. Qui fabbricano mattoni per costruire la torre, non vi sono stati obbligati, come i figli di Abramo, ma lo decidono da soli. Il progetto per il quale lavorano riguarda la costruzione di una torre ‘per farsi un nome’, cioè per darsi la stabilità propria di un sistema bene articolato ed efficiente. Quegli uomini parlano la stessa lingua e sono concordi in un progetto; si intuisce che non si tratta di un popolo, quanto di una massa: è venuta meno la diversità a favore dell’uniformità. L’unità per sentirsi sicuri è ricercata nell’omologazione, non nella comunione. Con il crollo della torre, gli uomini sono riportati al limite strutturale della condizione umana, ma anche alle originalità soggettive. Perdendo l’unità ottenuta a prezzo della sottomissione a un’unica cultura (lingua, progetto), possono recuperare le loro differenze e ricchezze e lo spazio della libertà. Gli uomini potranno ritrovare la sicurezza non nella sottomissione, ma nell’alleanza tra di loro”.

Qui ci sono delle chiare indicazione del modo nuovo di pensare che occorre: cioè basta omologazione da una parte e basta folle informi dall’altra. Sembra di vedere il mondo omologato del mercato unico e le folle informi dei nuovi populismi. Ma questo l’articolo non lo dice, dice piuttosto qualcosa di personale a ogni lettore sull’esperienza che ognuno sta facendo: “Il vivere – è l’esperienza di tante famiglie – in luoghi stretti, concepiti per dormire più che per viverci, mette a nudo i sentimenti dei cuori, mostrando, tra l’altro, se la famiglia è solamente una società di mutuo soccorso o se è invece un luogo unico in cui ciascuno può sentirsi accolto e amato per quello che è. Se ci si vuole bene veramente, si può vivere anche allo stretto, benché con (tanta) fatica. Ma se l’amore non c’è, lo spazio condiviso può essere una prigione insopportabile”. Qui la chiarezza è indiscutibile ma sarebbe interessante capire come sia possibile arrivarci archiviando la cultura del “mutuo soccorso”. Ma proseguiamo a seguire il ragionamento.

Il passo successivo fa i conti con il famoso “andrà tutto bene”. Padre Libanori è di questo avviso: “Il ripetersi che tutto andrà bene – come si fa con i bambini spaventati – è divenuto un rito per esorcizzare il timore che invece possa andare tutto male!… Un timore che, alla fine, denuncia una sfiducia radicale che colpisce anche Dio. Ma quel Dio che, a nostro parere, dovrebbe fare esattamente quello che ci si aspetterebbe da lui, ossia sconfiggere il male in un baleno, non esiste: è una figura costruita dai nostri bisogni e somiglia tanto al papà che rassicura il bambino spaventato strillando contro il buio. La realtà ci sta mettendo davanti al Dio vero, che ascolta il grido di Israele e fa udire la sua voce a Mosè; spinge il popolo a mettersi in cammino e apre il mare al suo passaggio. Ma in fondo questo Dio non piace, perché costringe chi vuole conoscerlo davvero ad andare nel deserto, dove non c’è il cibo dell’Egitto e l’acqua è scarsa. Dove, affrontando la prova, egli diventerà adulto”.

Mettendo insieme i tre punti indicati sin qui si ha un quadro nuovo, importante. Pensando al magistero di Francesco vengono in mente la cura del creato e la fratellanza umana come le bussole di questo cammino.

L’argomento trattato non poteva evitare le stucchevoli polemiche, incredibili e proprio per questo importanti, sulle chiese chiuse. La risposta è così chiara da non richiedere di essere esposta tutta. Basta questo passaggio: “La Chiesa vera, quella fatta di uomini, ringraziando Dio, può vivere anche senza chiese, come è accaduto per i primi secoli e come ancora accade in molte parti del mondo”. Non è l’auspicio dell’autore, ovviamente, sicuro che riapriranno. Ma l’autore ricorda a chi cerca di usare il tema che nel Vangelo è scritto: “È venuto il tempo, ed è questo, nel quale né su questo monte né in Gerusalemme si darà gloria a Dio, ma in spirito e verità”.

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