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Aspettando Godot

Grandi erano, giustamente, le attese degl’italiani per i dettagli sulla famigerata Fase 2. Ad essa è legata la ripartenza di un paese stanco, dopo due mesi di lockdown, e preoccupato per le difficoltà della ripartenza. Ansioso di capire come ricominciare a produrre, a consumare, a vivere. Insomma, un’ottima occasione, per il governo, per mostrare idee chiare, un piano preciso, una netta delimitazione fra i consigli degli organi scientifici competenti e le responsabilità della politica.

Di fronte a queste aspettative, il discorso del Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, che ieri sera ha illustrato i contenuti del nuovo DPCM, lascia obiettivamente sconcertati. Il modello italiano, tanto sbandierato nelle scorse settimane e ribadito anche ieri, è riassumibile in una sola espressione: non esiste alcun modello italiano.

Non è esistito all’inizio della pandemia, con risposte diverse ed incoerenti fra regioni, a parte un lockdown generalizzato di tutte le attività private e pubbliche (senza alcuna idea su come uscirne). E non esisterà domani, quando vedremo semplicemente perpetuarsi le stesse regole di contenimento e distanziamento sociale.

Non una parola sulla app ‘Immuni’, oggetto di accesi dibattiti e del lavoro di una intera task force creata ad-hoc nelle scorse settimane. Nessuna indicazione su eventuali altri sistemi di tracciamento, sulla disponibilità e l’opportunità di effettuare tamponi, sulle indicazioni per l’estate incombente, sulle modalità di ripresa delle attività didattiche.

Solo che dal 4 maggio continuerà sostanzialmente lo stesso regime di oggi; che ogni regione (ma anche ogni comune) potrà interpretare come meglio crede alcuni passaggi del decreto, imponendo regole più restrittive.

Che potrà riaprire il settore manifatturiero, ma con difficoltà logistiche di distanziamento nei trasporti pubblici che rischia di rendere questa indicazione di fatto ingestibile. In un paese con carenze infrastrutturali enormi, occorreva utilizzare la fase del lockdown per preparare quelle (deboli) infrastrutture a reggere il peso della ripartenza. Non con la semplice apposizione di bollini sui sedili non occupabili.

La scuola riaprirà a settembre. Benissimo, ma non si capisce perchè dovrebbe riaprire (con lezioni in presenza) a settembre se il premier ha chiarito che questa seconda fase andrà avanti fin quando non avremo un vaccino… E allora non avrebbe sortito lo stesso risultato ripartire subito, come stanno facendo molti paesi europei? E, se non si giudica sufficientemente sicuro riaprire, non sarebbe meglio attrezzarci già da oggi ad una attività che dovrà avvenire sempre a distanza; con un’informatizzazione massiccia ed investimenti sulla banda larga?

Così come lo smart working nelle amministrazioni pubbliche e private (tutti coloro che fanno lavoro d’ufficio), rendendolo meno improntato all’esigenza di rispondere ad una situazione di emergenza e più strutturato, organizzato, pianificato.

A meno che non si pensi di poter gestire il paese per un intero anno in emergenza continua, con la polizia e le autocertificazioni, con studenti informatizzati ed altri privi di qualsiasi connessione che consenta di seguire una lezione online, con infrastrutture di trasporto che nessuno potrà di fatto utilizzare, con un settore turistico (che, lo ha ricordato lo stesso premier, vale il 15% del PIL) in balia di incertezze che rischiano di condannarlo a morte.

Una sola notizia vera ha fornito ieri Conte: che è stata eliminata l’IVA dal costo delle mascherine. Peccato che sia stata l’Unione Europea a disporre la sua eliminazione da tutti i dispositivi di protezione sanitaria (retrospettivamente dal 1° gennaio e fino al 31 luglio 2020).

Insomma, piuttosto che organizzare un piano coerente e sensato, capace di bilanciare esigenze di ripresa economica e sicurezza sanitaria, di salute mentale e distanziamento sociale, si è deciso di fare come Vladimiro ed Estragone: attendere l’arrivo di Godot, che in questo caso (ma il condizionale è d’obbligo) dovrebbe essere il vaccino.

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