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Covid-19 e (in)sicurezza globale. I rischi dei laboratori secondo Amorosi

C’è un paradosso che dovrà essere tenuto a mente quando l’emergenza Covid-19 finirà: “Più è elevata la quantità di laboratori che mettiamo in campo per proteggerci da agenti infettivi, maggiore è il deterioramento del quadro di sicurezza, sia nel contesto interno, sia in quello internazionale”. Parola di Massimo Amorosi, esperto di studi strategici, già consigliere della Farnesina per biosicurezza e minacce Cbrn (acronimo che raccoglie le sfide chimiche, biologiche, radiologiche e nucleari), che abbiamo sentito per commentare un tema crescente delle ultime settimane: i laboratori ad alto livello di biocontenimento.

Si discute molto in questi giorni sulla sicurezza nazionale. Come impatta su di essa la pandemia?
A scuotere più profondamente la sicurezza nazionale di un Paese e a destabilizzare maggiormente gli equilibri politici ed economici mondiali non può che essere la propagazione pandemica di un virus emergente rispetto al quale la popolazione è totalmente suscettibile. Sento dire che la pandemia da Sars-CoV-2 è da annoverare tra le minacce ibride. A parte il fatto che la sua applicazione fu teorizzata per la prima volta nel 2013 dal capo di Stato maggiore russo, Valery Gerasimov, non vedo davvero come la sua rielaborazione in ambito Nato (dal summit di Varsavia del 2016) si possa estendere agli attuali e futuri rischi biologici. Non vorrei che la categoria della “minaccia ibrida” sia oggi invocata come attenuante per l’incapacità di prevedere una pluralità di sorgenti di rischio, tutte riconducibili a scenari di bio-insicurezza globale assolutamente prevedibili e prevenibili.

Come l’origine geografica? Il presidente Trump ha definito a lungo il “virus cinese”, scatenando però alcune polemiche.

Le polemiche per le affermazioni del presidente americano, a dire il vero, mi paiono un po’ esagerate. Sebbene vi siano degli specifici criteri definiti dall’Oms per dare un nome alla malattia, dal punto di vista storico attribuire una connotazione geografica ad un agente infettivo non è una novità. La sifilide era stata definita dai napoletani il “mal francese” in quanto l’epidemia esplose allorché le truppe di Carlo VIII discesero nella penisola italiana. Lo stesso dicasi per l’epidemia di sudore anglico, osservata inizialmente proprio in Inghilterra nel 1485, e soprattutto per la ben nota epidemia influenzale conosciuta come “spagnola” che si verificò nel periodo della Grande guerra. Piuttosto che dare eco a polemiche, ritengo molto più utile che sia accertata l’origine animale del Sars CoV-2. A ben vedere un passaggio fondamentale, rispetto al quale non vi sono tuttora dati certi.

In ogni caso, sappiamo che l’epidemia ha avuto inizio a Wuhan, quindi con una chiara origine geografica.

Senza dubbio. Sappiamo che regioni come l’Asia meridionale e sudorientale sono veri e propri hotspot per malattie infettive emergenti, e ciò per una serie di concause quali l’alta densità di popolazioni umane e animali, problematiche connesse all’igiene di base e altre legate alle capacità sanitarie spesso inadeguate. Ciò detto, il fenomeno della globalizzazione microbica ha inizio almeno duemila anni fa in coincidenza con il movimento umano lungo le rotte commerciali dell’antica Via della seta, solo che adesso assume nuove e inedite dimensioni. La minaccia che siamo chiamati a fronteggiare è appunto quella che è riconducibile al fenomeno della bio-insicurezza globale, una definizione che mi sembra pertinente.

Ci spieghi meglio.

Il quadro è complesso e multidimensionale e richiede un’analisi di contesto che integri i dati tecnico-scientifici con i dati di situazione. Ma uno fra gli altri non può sfuggire ad un’attenta valutazione: i laboratori ad alto biocontenimento stanno proliferando sia orizzontalmente che verticalmente. Ciò ché significa che un numero maggiore di Paesi li sta realizzando, ma anche che quelli che già ne dispongono ne stanno costruendo altri. All’indomani degli eventi dell’11 settembre, tale proliferazione ha subito una brusca accelerazione. Se ciò, da un lato, aumenta la capacità di comprendere e trattare malattie emergenti, dall’altro, amplifica l’insicurezza.

Perché?

Perché le possibilità di incidenti, sottrazioni illecite o diversioni, oppure di un impiego intenzionale di agenti patogeni si moltiplicano parallelamente a un aumento esponenziale del numero dei laboratori. Il fenomeno descritto, pertanto, rappresenta un paradosso: la più elevata quantità di laboratori che mettiamo in campo per proteggerci da agenti infettivi si traduce di fatto in un deciso deterioramento del quadro di sicurezza sia nel contesto interno che in quello internazionale. Ricordo quella che è un’ovvietà, ossia che i virus non riconoscono le frontiere. Vale la pena poi notare che molti di questi laboratori ad alto livello di biocontenimento appartengono ad istituzioni private o accademiche, diversi dei quali non sono soggetti ad una supervisione governativa. Questi possono generare sostanziali ritorni finanziari, soprattutto in quei Paesi in cui le biotecnologie sono benzina per le rispettive economie.

Intende dire che con la proliferazione di laboratori a livello globale l’eventualità di incidenti è da prendere in maggiore considerazione?

Certamente. Incidenti si verificano, anche in laboratori che sono allo stato dell’arte in termini di biosicurezza. Rischio che si intensifica nel caso di laboratori realizzati in aree ad alta densità abitativa o dove possono avere luogo più di frequente disastri naturali. Talvolta, il rischio di rilascio accidentale va ricondotto alla struttura fisica del laboratorio così come alle competenze e all’esperienza del personale scientifico impiegato. Nel primo caso, a seconda delle misure di biosafety in vigore e dei mezzi finanziari del Paese, un’infrastruttura può essere più o meno sicura. Anche se costruita in linea con gli standard internazionali, questa deve essere periodicamente manutenuta. Non meno rilevanti appaiono gli aspetti intangibili della sicurezza dei laboratori.

Vale a dire?

Vale a dire quelli attinenti al fattore umano, per far fronte ai quali servono background checks del personale. La dimensione umana è davvero il nervo del sistema: la formazione è un processo articolato, specie a fronte di una domanda crescente di risorse specializzate, e ciò vale tanto più per quei Paesi che non possono vantare un’infrastruttura in condizione di assicurare un adeguato training al proprio bacino di personale scientifico. Con l’arruolamento di risorse meno qualificate, l’errore umano può essere dietro l’angolo. Il rischio di incidenti è infine difficile da quantificare dato che non risulta esservi un meccanismo sistematico di reporting. Delineare un quadro siffatto non implica ovviamente entrare nello specifico della questione dell’origine del Sars CoV-2, rispetto alla quale, ripeto, non vi sono ad oggi evidenze.

Sta dicendo che esiste anche un problema di supervisione delle strutture?

I laboratori BSL-4, ossia con i livelli più stringenti di biosicurezza, sono quelli sottoposti a più rigidi controlli governativi rispetto alle facilities del tipo BSL-3. Ciò nonostante, per quanto queste ultime siano di gran lunga più numerose per garantirne un’efficace supervisione, la maggior parte dei patogeni potenzialmente impiegabili per finalità ostili sono proprio agenti di livello 3. Per questa ragione, rispetto al rischio di bioterrorismo, una vigilanza sembra indispensabile sui laboratori BSL-3. Il grado di controllo e di oversight su tali strutture varia evidentemente da Paese a Paese. C’è da dire anche che gli esperimenti su animali che coinvolgono agenti di livello 3, come quelli della Sars, dell’Hiv, dell’H7N9 o della Brucella, devono essere condotti in laboratori ABSL-3, dove il rischio in termini di biosafety è superiore rispetto a quello nelle strutture BSL-3 in ragione del lavoro svolto in vivo. In pratica, i fenomeni biologici sono riprodotti in organismi viventi.

E la Cina come si inserisce nel discorso?

In riferimento alla situazione in Cina, come evidenzia un articolo apparso su Nature, l’opportunità di abbinare la ricerca in strutture BSL-4 con un’abbondante disponibilità di primati per attività di laboratorio potrebbe avere effetti dirompenti, non solo perché questi ultimi sono fondamentali per testare vaccini o antivirali, ma anche in considerazione delle minori restrizioni regolamentari o etiche che vincolano i ricercatori di quel Paese.

Con che conseguenze?

Una su tutte, facilmente traducibile anche sul piano della geopolitica e della geoeconomia: la Cina sta diventando un hub globale per le ricerche su primati, e il rischio è che si crei una situazione di quasi monopolio, in cui i nostri ricercatori siano dipendenti da un singolo Paese per ricerche essenziali sulle malattie infettive e per la sperimentazione di farmaci. La migrazione di expertise in direzione della Cina è già una realtà. Tale vulnerabilità era stata già evidenziata meno di due anni fa da alcuni esperti nel corso di un incontro di quello che era ilBlue Ribbon Study Panel on Biodefense statunitense.

Qual è la situazione dei laboratori in Cina?

Un solo laboratorio BSL-4 è pienamente operativo in Cina ed è quello di Wuhan. Da una ricerca pubblicata lo scorso anno, emerge che la distribuzione di laboratori BSL-3 non è uniforme sul territorio, con la maggioranza di questi concentrati nelle regioni orientali e centrali del Paese. Le autorità cinesi avevano pianificato di realizzare dai cinque ai sette laboratori BSL-4 in aggiunta a quello di Wuhan, mentre, per fare un pieno uso delle strutture BSL-3 già esistenti, sarebbe prevista la costruzione di altri laboratori del medesimo livello di biosicurezza (inclusi laboratori mobili) per perseguire l’obiettivo di averne uno per ogni provincia. In ogni caso, come evidenzia l’autore della suddetta ricerca, la Cina si trova ancora nelle fasi iniziali dello sviluppo di una biosafety di laboratorio.

La collaborazione internazionale può essere la chiave di volta per scongiurare il ventaglio di rischi biologici?

La collaborazione tra governi e tra questi e le istituzioni internazionali preposte è sempre auspicabile. Ma ciò non significa che non siano da mettere sotto la lente anche le partnership internazionali, in particolare se hanno obiettivi più ambiziosi rispetto al mero scambio di personale scientifico o collaborazioni per progetti congiunti. La vigilanza e la cautela nell’ambito dell’analisi dei rischi biologici emergenti sono sempre consigliate.

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