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Le tensioni fra UK e Russia? Tutta un’altra storia. Parola di Pellicciari

Durante la pandemia molti schemi tradizionali delle relazioni internazionali – se non proprio saltati – sono stati temporaneamente sospesi e non è sicuro se mai verranno riattivati, a crisi finita. Ragionamenti applicati nel passato quasi automaticamente a loro volta svaniscono e siamo portati a riflettere invertendo polarità come mai prima avremmo osato.

Un esempio riguarda come l’opinione pubblica russa ha seguito l’angosciante vicenda della malattia da Covid-19 e la convalescenza del primo ministro britannico, Boris Johnson.  Secondo vecchi schemi, ci saremmo aspettati quasi un compiacimento russo  della vicenda (politico, ovviamente) con un uso degli stessi toni ironici riscontrati invece su molti media nostrani, riferiti al ritorcersi contro il Premier britannico delle teorie dell’immunità di gregge da lui stesso (pare) promosse all’inizio della pandemia.

Invece le reazioni russe alla degenza di Johnson sono state improntate a una generale cautela che tradiva una reale preoccupazione per il decorso della malattia. La stessa notizia del ricovero lanciata con largo anticipo mondiale dall’Agenzia Ria Novosti aveva fatto intendere dei toni controllati, e confermati poi dal resto dei media sia durante la degenza (con ampio risalto agli auguri di guarigione in arrivo da Russia e resto del mondo) che dopo la notizia della dimissione del primo ,inistro dal St. Thomas Hospital.

Questo atteggiamento da cauto a compassionevole ha sorpreso. La rivalità – quando non contrapposizione – tra Russia e Regno Unito è storica e affonda radici lontane. Come molti studiosi hanno sottolineato, i due Paesi sono “strutturalmente” troppo simili nei loro interessi geo-politici e vantano eccellenze negli stessi campi (su tutti – intelligence e diplomazia) per non essere dei natural born competitors.

Se tra Russia e Italia il rapporto non può che essere amichevole, quello tra Londra e Mosca si configura esattamente al contrario. Nel chiedersi il motivo di questa reazione russa alla malattia di Johnson, sorprendente date le premesse delle non facili relazioni tra i due Stati, si possono avanzare alcune ipotesi, tra cui una istituzionale e una antropologica.

L’ascesa al premierato di Boris Johnson è stata accompagnata da una certa motivata speranza nelle sfere governative russe che questo avrebbe segnato un periodo di distensione, se non proprio un re-set nei rapporti tra i due Stati.

Il motivo politico per questa speranza tra i soft wingers del Cremlino (va da sé che persistono ancora dei falchi che vi si oppongono) risiede in parte nella piattaforma politica di Johnson, in parte nel suo passato politico di sindaco di Londra.

Con il suo approccio diretto pragmatico e a-retorico, Johnson ricorda una visione in politica estera simile a quella di Trump nel privilegiare in generale i rapporti bilaterali e nello specifico nella capacità di imprimere svolte radicali e inaspettate grazie a inversioni repentine noncuranti dei dogmi tradizionali, come ad esempio un pregiudizio russofobico nei riguardi del Cremlino.

Inoltre, durante il suo mandato di Sindaco di Londra (2008-2016), Johnson ha avuto modo di conoscere da vicino e familiarizzare con la seconda generazione di oligarchi russi arrivati in UK, attiva nella finanza ma al contempo molto meglio integrata culturalmente nella società inglese e in particolare nella capitale, soprattutto se paragonata alle prime generazioni di stranieri confluite proprio in quegli anni con le Primavere arabe.

Questo facoltoso ceto russo-britannico, a differenza dei propri predecessori, non è arrivato a Londra in rottura con il Cremlino e in fuga da Mosca, ma ha continuato a vivere facendo la sponda tra i due Paesi e contribuendo a tenere aperto un dialogo diretto e un canale tra nuova e vecchia madrepatria.

Al centro di questo scambio si è collocata materialmente l’ambasciata Russa a Kensington, punto di ritrovo di questo ceto, guidata in quegli stessi anni (2011-2019) da un diplomatico atipico e – come Johnson – molto result-oriented, informale e pragmatico come Alexander Yakovenko, a tal punto che numerose voci riferiscono di un rapporto di amicizia tra i due, andato oltre i meri rapporti istituzionali.

Rientrato a Mosca, Yakovenko – in passato già vice-ministro degli Affari Esteri – è andato a ricoprire il prestigioso ruolo di Rettore dell’Accademia Diplomatica ed è probabile che abbia trasmesso ai diplomatici ora al centro del potere a Mosca le potenziali opportunità di disgelo con Johnson, dopo i pessimi periodi trascorsi durante i mandati di David Cameron e Theresa May.

L’argomento antropologico è forse ancora più interessante perché esula da ragionamenti di tatticismo politico e rivela il vero orientamento popolare al netto del mainstream. Il comune sentire russo non è affatto contrario a quello anglosassone, pur percependosi in competizione con esso su molti livelli, sociali e culturali.

C’è un sentimento di stima per la società britannica, frustrato quando i russi si sono sentiti investiti da giudizi personalizzati sul loro carattere di popolo, “colpevoli” per mosse politiche del Cremlino avversate dall’Occidente, con retoriche immutabili, improntate a un’estrema gentilezza formale ma a un contenuto critico e sarcastico.

Johnson ha saputo sempre porsi esattamente all’opposto di questa matrice comunicativa, ovvero essere duro (o forse solo schietto) nell’oggi ma comunque pronto all’accordo nel domani. Anche quando ha avuto il non facile ruolo di essere ministro degli Affari Esteri britannico durante il non facile caso Skripal ha avuto sempre un approccio non-burocratico che arriva diretto al cittadino medio russo – anche grazie a un innegabile carisma.

Nell’essere leader forte e visibile, come in Europa ne mancano oramai da decenni, Johnson riesce a farsi sentire dai russi con una struttura linguistica essenziale e logica, simile a quella che ha reso popolare in patria Vladimir Putin.

Interlocutore non mediato, Johnson prende le distanze dai linguaggi tortuosi e politicamente corretti dell’establishment europeo, di cui l’opinione pubblica russa sente le surreali traduzioni letterali in lingua nei propri notiziari domestici (vecchio trucco del mainstream di Mosca per sottolineare la lontananza dell’Europa istituzionale dai suoi cittadini).

Questo aiuta a comprendere perché, uscito Johnson dalla terapia intensiva del Covid-19, i russi abbiano salutato il suo ritorno a Downing Street con un sospiro di sollievo.

Forse anche perché rassicurati dal pensiero che, se il virus è stato sconfitto dal carisma del primo ministro britannico, probabilmente – se ce ne fosse bisogno e con i dovuti scongiuri – lo sarebbe anche da quello del presidente russo.

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