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Occhio! L’Africa è in ginocchio ma la Cina non cancellerà il debito (anzi)

La Cina e l’Africa: un continente in cui Pechino è strategicamente penetrato si chiede come la Repubblica popolare possa aiutare le sue economie che rischiano di essere strangolate dagli effetti del coronavirus. Se, per esempio, la Cina possa decidere di cancellare parte dei debiti per aiutare certe nazioni: quello che il presidente francese, Emmanuel Macron, ha definito un dovere morale (la cancellazione di parte del debito).

Il ruolo cinese in Africa è profondo, primo fornitore e primo finanziatore nel quadrante geografico più povero del mondo: un’attività che  porta dei ritorni diretti e indiretti. C’è l’interesse per la produzione di cibo, manifattura, materie prime, e gli interessi sul debito appunto (conseguenza di investimenti infrastrutture che servono per primo alle catene produttive cinesi e poi a migliorare le condizioni di vita degli africani). Poi c’è la sfera indiretta, quella che permette alla Cina di ricevere sostegno a favore delle proprie istanze nei sistemi multiforme; per esempio nelle battaglie interne per il controllo delle agenzie dell’Onu, non ultima quella per la Sanità.

L’Oms è guidata da un etiope (Addis Abeba è uno dei paesi africani con migliori collegamenti con la Cina), e l’organizzazione è sul banco degli imputati perché avrebbe permesso a Pechino di rallentare le informazioni sul SarsCoV2; una volontà strategica cinese, che non voleva perdere competitività (anche sul piano dell’immagine) con l’epidemia.

Ma nonostante il ritorno d’interesse negli investimenti africani, la Cina non sembra pensare a provvedimenti a sostegno di quei paesi con cui ha legami. Mentre la Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale hanno annunciato misure di soccorso immediate, tra cui la liberazione di miliardi di pagamenti del debito, la Cina è rimasta in gran parte silenziosa – dando spazio alle critiche, avanzate da tempo, secondo cui la penetrazione cinese espone certi stati africani alla trappola del debito (il governo cinese, le banche e gli appaltatori statali hanno concesso prestiti per 143 miliardi di dollari ai governi e alle società africane dal 2000 al 2017, secondo la China Africa Research Initiative della Johns Hopkins University).

Molti di questi Paesi, compresi gli esportatori di petrolio come l’Angola, spendono una parte sostanziale dei loro bilanci al servizio del debito, mentre la salute e l’istruzione soffrono. Qualsiasi tregua sarebbe benvenuta anche per un paese come l’Uganda, il cui ministro delle finanze dice all’Associated Press che “deficit scioccanti” nell’ultimo anno hanno costretto le autorità a chiedere prestiti per mantenere il governo in funzione: “Abbiamo forti relazioni bilaterali con la Cina”, dice il ministro, “ma non ci dicono niente” a proposito di interventi in questa fase apocalittica.

È la morsa del Dragone? Alcuni analisti prevedono che il perdono del debito reale sembra improbabile e che la Cina, nonostante la sua enorme influenza in Africa, eviterà misure unilaterali nonostante la pressione globale. In una scambio di email con AP, il ministero degli Esteri ha affermato che la Cina ha “superato le difficoltà” nell’aiutare l’Africa con spedizioni di forniture mediche per fronteggiare la pandemia: “La Cina continuerà a fornire assistenza all’Africa entro le sue capacità e in conformità con lo sviluppo dell’epidemia e le esigenze dell’Africa”, dice Pechino.

La realtà, secondo diversi analisti, è che Pechino potrebbe offrire termini di rinegoziazione del debito, stringendo così ancora più forte il lucchetto della trappola. Quei paesi infatti risulteranno ancora più indebitati, e perderanno parte della propria sovranità a favore della Cina. In un esempio notevole, il China Merchants Group di proprietà statale ha riacquistato metà di un porto nello Sri Lanka nel 2017, dopo che il governo era rimasto indietro nel rimborsare 1,5 miliardi in prestiti da Pechino. Oppure il caso dell’Etiopia, dove l’utility cinese State Grid (la cui filiale europea ha il 35 per cento di Cdp Reti) ha acquistato una quota da 1,8 miliardi nella società elettrica nazionale in cambio della cancellazione di una tranche del debito pubblico aperto con la Cina.

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