Calano gli investimenti diretti esteri di Pechino, aumentano però i rischi per i Paesi dell’Unione europea per quanto riguarda la collaborazione con istituti cinesi ma anche perché il coronavirus può rappresentare una nuova opportunità per il Dragone di mettere le zampe su alcune aziende strategiche del Vecchio continente in grosse difficoltà a causa della pandemia. Sono solo alcuni dei risultati contenuti nel dossier Chinese FDI in Europe: 2019 Update di Rhodium Group e Merics curato da Agatha Kratz, Mikko Huotari, Thilo Hanemann e Rebecca Arcesati.
Anche nel 2019 gli investimenti diretti esteri della Cina verso l’Unione europea sono diminuiti sulla scia del calo degli investimenti cinesi a livello globale iniziata nel 2016. Si parla di 12 miliardi di euro per l’anno scorso, meno 33% rispetto al 2018: il che significa che gli Ide cinesi sono tornati sui livelli del 2013. È cambiata la distribuzione geografica degli investimenti (per la prima volta dal 2010 il Nord Europa è il principale destinatario dei capitali cinesi, superando i “Big 3” cioè Regno Unito, Germania e Francia) ma anche i settori nel mirino: prodotti e servizi di consumo hanno infatti sorpassato il settore automobilistico come obiettivo principale per gli investitori cinesi.
COLLABORAZIONI PERICOLOSE
Ma se gli investimenti diminuiscono, a crescere sono le collaborazioni in ricerca e sviluppo tra la Cina e le imprese, le università e i governi stranieri. “Sebbene la maggior parte sia benigna e vantaggiosa da una prospettiva europea, alcune sollevano preoccupazioni che devono essere affrontate”, scrivono gli esperti.
“La nostra ricerca ha rilevato numerosi casi di collaborazione R&D problematiche”, spiega Rebecca Arcesati a Formiche.net. “I rischi principali sono due. In primo luogo, diversi casi destano preoccupazione dal momento che potrebbero aver facilitato o facilitare in futuro il trasferimento di tecnologie dual-use all’industria militare cinese – e dunque all’esercito”. Si tratta, per esempio, di “sistemi satellitari, radiazioni terahertz (radiazione submillimetrica elettromagnetica), semiconduttori per la costruzione di circuiti integrati, 3D printing per l’aviazione, e varie applicazioni di ICT e intelligenza artificiale”. In secondo luogo, “abbiamo diverse partnership con aziende cinesi le cui tecnologie di sorveglianza sono utilizzate dal governo cinese per il controllo e la repressione della popolazione, soprattutto nello Xinjiang. Le tecnologie oggetto delle collaborazioni a rischio includono principalmente riconoscimento vocale e facciale, thermal imaging e biotecnologie per il sequenziamento del Dna”.
E l’Italia? Il nostro Paese “è stato tradizionalmente uno dei principali destinatari degli investimenti cinesi in Europa”, spiega Agatha Kratz a Formiche.net. “È terzo per quanto riguarda il periodo 2000-2019, davanti alla Francia e alle spalle del Regno Unito e della Germania. Quanto allo scorso anno, però, gli investimenti cinesi sono stati piuttosto limitati, soltanto cinque transazioni. Gli investimenti cinesi totali nel Paese hanno raggiunto i 690 milioni di euro, principalmente grazie all’investimento di Haier in Candy, un produttore di elettrodomestici, per 552 milioni di euro. Altre transazioni hanno riguardato materiali di base, salute e prodotti farmaceutici. Infine, c’è Huawei che ha investito 10 milioni di euro per espandere la sua presenza in Italia”.
IL RISCHIO ACQUISIZIONI CON LA PANDEMIA
Gli autori del report sostengono che la pandemia di coronavirus avrà un impatto importante sui flussi di capitali a livello globale che, come dimostrano i primi dati dell’anno, sono in diminuzione verso i Paesi stranieri. Ma attenzione: “La crisi sta anche creando opportunità di acquisto in Europa e altrove”, scrivono.
I mercati di tutto il mondo sono crollati con la diffusione della pandemia. Al loro punto più basso di marzo, il DAX 30 della Germania e il CAC 40 della Francia avevano entrambi perso oltre il 30%. Le crisi passate hanno visto le aziende cinesi acquisire asset a prezzi scontati in giro per il mondo. Nel 2008-2009, hanno puntato sulle materie prime fondamentali per lo sviluppo della Cina, come ferro, nichel ore e petrolio. Immediatamente dopo la crisi dell’euro del 2012-2013, gli investitori cinesi hanno acquistato a buon mercato una serie di attività strategiche europee.
Appare meno probabile un’ondata “opportunistica” sullo stile di quelle passate a causa delle difficoltà delle aziende cinesi sui mercati interni ma anche per una risposta europea (il programma di acquisto di attività da 750 miliardi di euro della Banca centrale europea e altre misure dei governi nazionali a sostegno delle imprese) più rapida ed efficace rispetto a quella del 2008-2009.
LE DIFESE EUROPEE
Molti Paesi e la Commissione europea hanno rafforzato le loro linee guida per proteggersi dalle mire cinesi e non su società e tecnologie strategiche. È il caso anche dell’Italia con il Golden Power pensato per blindare “le aziende strategiche dell’economia nazionale da ogni tentativo di scalata ostile”, come ha spiegato ieri a Formiche.net il sottosegretario Riccardo Fraccaro.
Tuttavia, concludono gli esperti di Rhodium Group e Merics, l’Europa può e deve fare di più per individuare le criticità nei campi della collaborazione scientifica e della ricerca. “Come per lo screening degli investimenti, i leader dell’Ue devono trovare soluzioni che rispondano a una serie di preoccupazioni preservando al contempo l’apertura economica dell’Europa”. Se si è davvero preoccupati per i trasferimenti di tecnologia sensibile o per le aziende europee che contribuiscono direttamente o indirettamente alle violazioni dei diritti umani, allora bisogna estendere il controllo oltre gli investimenti azionari che coprono le partnership. Per identificare e mitigare i rischi, “i ricercatori, che siano aziende o università o individui, devono investire per comprendere meglio le aziende e le politiche cinesi”.