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Biosicurezza, la Cina lancia la sua strategia. Tra necessità e propaganda

Un elemento che emerge con certezza dalla caotica crisi creata dall’epidemia di SarsCoV2 è sicuramente l’assenza – in quasi tutti i Paesi del mondo – di una adeguata struttura strategica per affrontare i bio-rischi. La pandemia espone con nitidezza l’impreparazione sulla biosicurezza; impreparazione che si ripercuote nelle tre sfere che riguardano la nazioni: la salute dei propri cittadini, la stabilità del tessuto socio-economico interno, la possibilità di proiettare a livello internazionale i propri interessi.

Su tutti, il Paese più colpito è la Cina, che – da centro di propagazione del coronavirus – fatica a riprendersi e a seguire quella traiettoria da potenza di riferimento che il segretario del Partito, il capo dello stato Xi Jinping, intende affidare alla sua New Era. Non è un caso dunque se nella fase di ripartenza, insieme alla riapertura della catena produttiva (cuore della potenza cinese finora), il Comitato permanente della 13esima Assemblea nazionale del popolo cinese (Npc), l’autorità che ha potere legislativo, abbia deciso di dedicare alla macro-questione la diciassettesima sessione (iniziata domenica 26 aprile).

LA CINA E LA BIOSICUREZZA

La stampa cinese diffonde informazioni su come Pechino studi soluzioni e leggi quadro. Si va dal controllo dell’inquinamento (gli inquinanti sono considerati un fattore che amplifica la facilità di propagazione virale) alle normative che riguardano nuovi standard di igiene nelle aree urbane e suburbane; ambienti permeabili in cui la continua osmosi genera potenziali flussi virali, amplificati dalle differenze delle condizioni di vita intra-Cina. Per esempio la catena alimentare: la borghesia urbana iper-tecnologizzata cinese si ciba di prodotti provenienti dalle campagna, aree rurali e arretrate. È possibile che questo sia stato un elemento centrale nella propagazione del nuovo coronavirus responsabile della devastante sindrome Covid-19.

Il governo cinese parla di potenziare i sistemi di monitoraggio, di allerta precoce e di segnalazione dell’origine dei rischi per la bio-sicurezza. È altamente probabile che infatti il virus si sia propagato dal mercato umido di Wuhan; sia stato originato da un pipistrello (il coronavirus responsabile della pandemia ha alte percentuali di somiglianza con quelli portati dai chirotteri), e poi abbia fatto il salto verso l’uomo (forse dal pangolino, uno degli animali più contrabbandati del pianeta, usato anche nella medicina tradizionale cinese). Al mercato della città motore dell’Hubei – cuore della prima strategia go-west cinese, una decina di anni fa – si vendono anche animali vivi.

Pechino ammette che debbano essere migliorate le condizioni igieniche di certe strutture (iper-frequentate tra l’altro, poste al centro di metropoli come appunto Wuhan, che ha 11 milioni di abitanti). La Npc ha discusso anche di questo: la dotazione di servizi igienico-sanitari ambientali nei mercati all’ingrosso di prodotti agroalimentari. È evidente a Pechino che non è più possibile considerare la biosicurezza un aspetto dell’ampio spettro delle minacce ibride, ma la questione è ormai diventa un elemento centrale per la capacità statale. Un terreno su cui un Paese misura la sua prontezza, e dunque la sua forza: un fattore su cui occorre pianificazione strategica.

La Cina sta costruendo una legislazione quadro in cui affida compiti complessi per la gestione di bio-rischi: strutture preposte, agenzie governative, dipartimenti specializzati, unità militari. La raccolta di informazioni sarà continua, e si creerà dunque una sorta di intelligence dei bio-rischi, con tanto di sistemi pensati per progettare previsioni e misure pro-attive, mosse collegate ai dati via via raccolti. Ogni provincia dovrebbe avere centri appositi, collegati all’autorità centrale.

L’INTENTO NARRATIVO

Questo stando alle dichiarazioni dei media, che ovviamente hanno anche un valore propagandistico. E non secondario. Tutto va infatti inserito anche nella sfera della campagna revisionistica con cui Xi sta provando a trasformare il Paese da untore a salvatore globale – sono i casi che riguardano la diplomazia degli aiuti, di cui Formiche.net si occupa con costanza fin dai primi giorni di pandemia (un esempio: China Southern Airlines, la maggiore compagnia aerea della Cina, sta inviando ogni settimana 185 voli cargo internazionali per aiutare altri Paesi contro il virus, e si tratta di solidarietà che maschera interessi di politica estera).

E questa narrazione non può non ruotare anche attorno a messaggi del genere: la Cina è preparata al ripetersi di certi rischi. La questione è da tempo passata su un piano di scontro di carattere superiore, un confronto tra modelli. E Pechino costruisce elementi narrativi attorno al modello cinese, da prendere come esempio adesso durante il virus, sfruttando scatti facilitati dalla fase emergenziale per ottenere ritorni successivi.

Dalle dichiarazioni diffuse a latere della riunione, si evince in effetti come i funzionari statali del Partito intendano sottolineare come queste misure siano un elemento a beneficio dei cinesi, ma anche del resto del mondo. Il tema di fondo è la volontà di dimostrare una – quanto meno apparente – responsabilizzazione da parte della Cina. Elemento fondamentale, con cui Pechino dovrà dimostrarsi ancora partner affidabile nelle future relazioni internazionali. E la responsabilità e l’affidabilità sono diventati necessità anche sotto le pressioni della grande stampa.

LE PRESSIONI INTERNAZIONALI

Nei giorni scorsi il Financial Times, per verificare cosa sia accaduto a monte (ossia, le responsabilità della Cina) ha invocato la necessità di una commissione d’inchiesta internazionale, magari guidata dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, dato che l’Oms ha dimostrato di essere oggetto delle penetrazioni cinesi (questione che ha fatto perdere la fiducia di alcuni paesi nell’organizzazione, dagli Usa a Taiwan fino all’Australia). Il giornale della City chiede al Partito comunista cinese di “aprire le sue porte” anche per evitare che tutto si polarizzi in uno scontro Pechino-Washington.

Sulla stessa linea il Washington Post, che ha ricostruito le responsabilità cinesi con un articolo dell’Editorial Board (tra queste: l’assenza di comunicazione e i tentativi di insabbiamento all’interno della struttura regionalizzata del Partito, quella che con la riunione di ieri viene rafforzata come catena nell’ottica del piano di biosicurezza). Sul WaPo anche gli articoli di Davi Ignatius, stimatissimo commentatore di sicurezza nazionale che accede a informazioni di elevata affidabilità: per Ignatius non c’è da sottovalutare l’ipotesi “B” secondo cui il SarsCoV2 sia sfuggito da un laboratorio di ricerche virologiche avanzate che si trova proprio a Wuhan (non distante dal mercato considerato il focolaio per “l’ipotesi A”).

L’ipotesi dell’incidente, sollevata dalle intelligence Usa, circola da diversi giorni tra scetticismo e possibilità. Resta che anche questo, per un Paese che intende intestarsi parte dei destini del mondo, è un terreno di sfida. E anche questo nell’ambito della sicurezza, declinata nella capacità della Cina di gestire le potenzialità tecnologiche acquisite (iper-tema). Nel caso, la biosicurezza diventa l’ambito da cui controllare i laboratori iper-specializzati come quello di Wuhan.


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