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Modello Cina. Il Washington Post critica Pechino. E chiede a Biden di avere una strategia con la Cina

L’Editorial board del Washington Post pubblica un commento molto critico con la Cina e che essenzialmente incolpa il sistema autocratico impostato dal Partito comunista nel Paese della diffusione del coronavirus SarsCoV2 nel mondo. “How China’s authoritarian system made the pandemic worse“. È un pezzo importante, perché il giornale di Jeff Bezos ha usato più volte la crudezza della linea anti-cinese – soprattutto sul campo di sfogo commerciale – come elemento di critica contro il presidente Donald Trump. La posizione presa oggi è testimonianza che la pandemia ha prodotto un allineamento di intenti molto forte negli Stati Uniti riguardo a Pechino e alle responsabilità globali del segretario del partito, Xi Jinping, decisore massimo e capo dello Stato cinese.

“Nel caso della Cina, il punto debole era il sistema. Un governo chiuso e autoritario ha ripetutamente ingannato e nascosto la verità mentre il virus si diffondeva”, scrive il board che detta la linea del quotidiano. L’articolo parte ricostruendo la cronologia del contagio che è già uno schiaffo per la Cina: novembre, dicembre dello scorso anno a Wuhan.

Colpo per il revisionismo con cui il Ccp vuole ricostruire agenda e flussi virali – si ricorderà che in questo quadro è stato colpita pesantemente anche l’Italia, con il Global Times (media che si occupa di diffondere le policy del Partito in inglese) che ha evocato la possibilità che il virus si fosse originato in Lombardia. Tesi senza alcun genere di supporto, val la pena precisarlo.

È evidentemente errato accusare la Cina – almeno stando alle prove attuali – di aver creato volontariamente la piaga. Si scivola nel campo delle fantasie complottiste e il rischio razzista è dietro l’angolo. I cinesi, intesi come popolazione, sono innocenti, anzi vittime. I cinesi intesi come establishment della burocrazia del partito, dalle strutture prossimali al corpaccione centralizzato del Politburo vanno invece messi sotto aspra critica. Il sistema cinese che il partito ha creato, e Xi rafforzato con l’intento di diventare potenza globale di riferimento; gli inganni con cui è stata costruita la narrazione hanno certamente peggiorato la situazione, e come scrive il WaPo davanti a tutto questo l’unico rimedio adeguato sarebbe maggiore trasparenza e piena divulgazione. Insomma un ambiente più liberale.

Il virus è probabilmente evoluto da animale a uomo – forse un pipistrello: c’è corrispondenza dell’89 per cento tra i coronavirus dei chirotteri e quello che sta infestando il mondo. Possibile che sia stato trasmesso al mercato umido di Wuhan, dove si vendono animali vivi. Il Post evoca anche un altro dubbio che ultimamente la comunità di intelligence americana ha fatto serpeggiare tra i media: non si può escludere sia stato inavvertitamente diffuso dall’Istituto di Virologia di Wuhan, che aveva condotto ricerche sui coronavirus di pipistrello. Ma è possibile che una struttura chimico-batteriologica di livello 4 – il massimo tecnologicamente – si lasci sfuggire un patogeno? E allora la domanda è successiva: cos’è successo? Pechino, tecnologicamente all’avanguardia, non è in grado di gestire quei laboratori?

Perché il sistema di segnalazione delle polmoniti insolite che in Cina funziona dal 2003 – dopo la Sars, un virus che corrisponde all’82 per cento a SarsCoV2 – non ha diffuso le informazioni a Pechino? Cosa è successo da dicembre? Il WaPo taglia corto: lo chiama “insabbiamento”. Secondo trascrizioni circolate sui media, Xi era perfettamente a conoscenza del virus – della sua violenza, e dunque della sua gravità – sin dal 7 gennaio. A metà di quel mese la commissione sanitaria di Wuhan ha emesso una circolare secondo cui in città non c’erano nuovi casi. In quei giorni la China’s National Health Commission iniziava a dire che il coronavirus poteva passare da persona a persona: secondo un memo ottenuto dall’Associated Press, la valutazione della commissione nazionale diceva che la situazione era “grave e complessa”. Ma la Cina non l’ha comunicato al mondo, non ha messo in guardia: il documento redatto per informare le varie province del Paese era classificato. Impossibile diffonderlo: e d’altronde chiunque parlava della situazione, medici e tentativi giornalistici, finiva imbavagliato.

Pubblicamente in quei giorni la linea del Partito era quella espressa dal capo del centro emergenze per il controllo delle malattie infettive: “Il rischio di trasmissione da uomo a uomo è bassa”, diceva in televisione Li Qun. Per sette giorni, fino al 20 gennaio, la Cina ha scelto il mantenimento del sistema – la chiusura, anche in ottica di perdere vantaggi strategici – piuttosto che la salute dei cittadini. Poi Xi Jinping ha parlato alla nazione.

Il 23 gennaio Wuhan, una città di oltre undici milioni di abitanti e centro produttivo cinese, è stata messa sotto lockdown. Le scarse immagini che arrivavano al mondo raccontavano uno scenario fantascientifico – quello che di lì a poche settimane avremmo visto nel resto del mondo, contagiato dal virus partito dalla Cina.

Ieri, 17 aprile, il governo cinese ha fornito un dato revisionato sulle morti a Wuhan: 3.869, il 50 per cento in più di quanto finora dichiarato. Wuhan è la prima grande metropoli ad essere ripartita dopo il blocco imposto dall’epidemia. Una mossa positiva, nel senso della trasparenza, dettata però anche da un’esigenza stringente: da settimane si sottolinea come le urne contenenti le ceneri dei defunti siano state riconsegnate proprio a Wuhan e provincia in un numero nettamente superiore a quello delle vittime dichiarate. Le autorità cinesi hanno cremato tutti morti nel periodo epidemico, ma dubbi restano sulla veridicità dei numeri. Una revisione, scrive il WaPo, potrebbe essere un segno di positivo “verso la verità”.

Intanto dalla Cina è partita un’altra campagna propagandistica revisionista. Xi viene descritto come un salvatore, senza colpe sull’accaduto. Il modello cinese per sconfiggere il virus diventa quello che tutto il mondo dovrebbe emulare, ma non soltanto nella fase di emergenza. Un articolo del Global Times nei giorni scorsi valutava la crescita cinese legata al declino dell’Occidente, inteso come modello strutturale. Ossia, le democrazie liberali hanno perso contro i modelli autarchici stile Pechino.

“Questo affilamento dei coltelli è pericoloso. Gli Stati Uniti e la Cina devono cooperare per affrontare la pandemia e le sue conseguenze, la Cina è fondamentale nella catena di approvvigionamento globale di farmaci, dispositivi di protezione individuale ed è una superpotenza economica. Anche la Cina e il resto del mondo devono affrontare insieme le malattie infettive, non usarle per guadagnare punti. Ma nessuno dovrebbe concludere che il modello autoritario cinese debba essere emulato”, scrive il WaPo. Il modello cinese è fatto di inganno, insabbiamento e riscrittura della storia: è parte del problema, non della soluzione.

In un altro editoriale firmato da due degli opinionisti politici di punta del giornale, si pubblica un altro articolo che riguarda il quadro americano nei riguardi della Cina. La battaglia su chi è più “duro” con la Cina sarà centrale nella corsa presidenziale del 2020 – e questo riguarda sia il contesto della pandemia di coronavirus che oltre. Mente Trump ha lanciato la sua campagna, fatta anche di critiche sghembe contro Joe Biden – colpevolizzato nella ferocia elettorale da Trump per alcune uscite diplomatiche sulla Cina non troppo dure, esattamente identiche a quelle sostenute dall’attuale presidente. È chiaro che il democratico avrà bisogno del suo playbook.

 


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