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Coronavirus, ora basta con il linguaggio bellico. Il commento di Domenico Delle Foglie

É troppo chiedere di dismettere il linguaggio bellico che accompagna la pandemia di coronavirus? A questo punto è difficile ricordare chi sia stato il primo a utilizzare il termine “guerra” per definire la condizione degli italiani alle prese con l’isolamento e la paura.

Ma di sicuro se ne è abusato. Dal presidente del Consiglio ai giornalisti, dai governatori di Regione al responsabile della Protezione civile. E con loro tanti medici e infermieri, forse gli unici ad avere il diritto di usare quei termini perché ogni giorno vedono la morte in faccia nelle terapie intensive. Anche chi scrive deve scusarsi per aver scelto l’espressione “guerra lampo” per definire l’aggressione virale che stiamo subendo.

Abbiamo ascoltato di tutto, persino la richiesta di emissione di “Bot di guerra”. Ma ora è forse arrivato il momento di smetterla. E di scegliere tutti insieme un profilo più misurato e rispettoso del dato di realtà. Anche perché non c’è nulla di peggio della guerra… Salvo voler evocare quegli scenari distopici che hanno riempito le pagine di fantascienza e tanta filmografia catastrofista.

Forse si è trattato di un riflesso condizionato della generazione dei babyboomers, cioè i nati fra il 1946 e il 1964. La prima generazione italiana che non ha dovuto combattere, che non ha memoria diretta della guerra e che ha percorso i sentieri del pacifismo sino al punto di veder realizzato il sogno dell’obiezione civile e poi ha assecondato la scelta dell’abolizione della leva obbligatoria. La storia ci insegna che la guerra porta la morte in numeri oggi del tutto inaccettabili per il comune sentire.

Basti pensare al Secondo conflitto mondiale con i suoi 55 milioni di morti in Europa, di cui il 60% civili. L’Italia è stata, mai dimenticarlo, un terreno di battaglia. Qui i soldati si combattevano fra le rovine fumanti e i civili pativano la fame. Ma deve rimanere un ricordo tristissimo che susciti ancora oggi orrore. E invece noi, quasi romanticamente, ci siamo detti che quella al coronavirus è la “nostra” guerra, nella quale, purtroppo, tanti uomini e tante donne nati negli Anni Quaranta e Cinquanta stanno morendo nelle corsie d’ospedale. Ma no! Questa non è la guerra conosciuta e combattuta. Questo è l’approdo di una storia, quella del mondo globalizzato e finanziarizzato che ha sconvolto gli equilibri naturali sino al punto di consentire la trasmigrazione di virus dal mondo animale a quello umano, ha ridotto le distanze fisiche fra continenti lontani, ha giocato col mito dell’immortalità.

Avere la consapevolezza di tutto questo è già un buon inizio per attrezzarci al futuro che comunque attende tutti noi. Facendo perno su quello che stiamo scoprendo di noi stessi, cioè la nostra straordinaria e inaspettata capacità di resilienza. Ma usare un linguaggio adeguato e commisurato alla gravità della nostra drammatica condizione, non è una resa al buonismo, anzi. Bisogna avere il coraggio di raccontare la realtà senza veli e questo è ciò che ci distingue, come democrazia, dai sistemi totalitari. Quindi sposiamo convintamente la trasparenza, ma proviamo a non gonfiare le parole e le paure.

Il mondo dell’informazione ha fatto, al pari di altri settori strategici del Paese, uno sforzo straordinario per continuare a narrare quanto sta accadendo soprattutto nelle zone più colpite dal coronavirus. Ed è un merito che certamente non sarà dimenticato dall’opinione pubblica. Ma usare un linguaggio adeguato alla gravità del momento, senza scavare voragini di angoscia, è una responsabilità insopprimibile. Ma questa responsabilità va condivisa da tutta la classe dirigente che, tanto per cominciare, la smetta di evocare la guerra. No, non siamo in guerra. Stiamo subendo l’attacco di un virus pericoloso e stiamo reagendo con i mezzi che la scienza ci mette a disposizione. Ma soprattutto con la nostra coscienza di cittadini e con la nostra capacità di essere solidali. Concentriamoci tutti sulla ricostruzione, mentre l’Italia piange i suoi morti.



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