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Covid-19, il ritorno dello Stato e i rischi per l’ordine liberale. Le parole di Amato e Dassù

Che cosa sta mancando nello storytelling dell’Europa ai tempi del Covid-19? C’è una narrazione anti Ue che spinge cittadini e media a relegare in secondo piano gli sforzi che Bruxelles sta facendo? E l’Italia pensa davvero che siano altri a dover pagare per i propri debiti, zavorrati dall’ulteriore peso che le conseguenze finanziarie del virus imporranno già domani al sistema italico?

Alcune analitiche considerazioni sul futuro dell’Europa sono state oggetto di un seminario promosso dal Centro Studi Americani con gli interventi di Giuliano Amato, Giudice della Corte Costituzionale e Presidente onorario del Csa, e Marta Dassù, Direttore di Aspenia, Senior Advisor European Affairs, The Aspen Institute e Vicepresidente del Csa.

L’ANALISI DI DASSÙ

“Non è semplice perimetrare le conseguenze geopolitiche di questa pandemia anche in riferimento al great global lockdown, dove le decisioni vanno prese con la logica dell’inventario” ha spiegato Dassù. “Il virus è uno stress-test perfetto per la nostra società globale contemporanea, perché mette a nudo la forza comparativa e i punti di debolezza dei singoli Stati, dei sistemi politici, delle loro leadership e delle singole strutture sanitarie. Ma direi che il Covid è un fenomeno di crisi come nessun altro abbiamo conosciuto, che non produce un mondo nuovo bensì accelera trend sottostanti. Ne cito quattro”.

ORDINE LIBERALE ADDIO?

In primis accelera la crisi di quello che avevamo definito l’ordine liberale internazionale, in fondo è la prima crisi del mondo post americano, di un mondo in cui gli Usa rinunciano ad esercitare una leadership sistematica. “Ciò svuota le istituzioni internazionali create dal dopoguerra in poi. Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite è politicamente assente da questa scena. Il G20 a presidenza saudita che non può funzionare con rapporti così tesi fra Usa e Cina, quindi a differenza di quanto era avvenuto nel 2008 con la crisi finanziaria, non ha avuto per ora un ruolo rilevante – prosegue la vicepresidente del Csa, da poco nominata dal segretario generale della Nato Jens Stoltenberg come membro della task force  task force a supporto del processo di rafforzamento politico dell’Alleanza. “L’unico aspetto davvero globale è il Covid19, per l’Europa significa far funzionare il multilateralismo, il tipo di approccio alle relazioni internazionali in cui l’Europa eccelle ma di contro è facile che l’Europa stessa si ritrovi schiacciata dalla competizione tra Usa e Cina. Inoltre a differenza che nel secondo dopoguerra, oggi l’Europa non può contare su un piano Marshall, con una ripresa in parte garantita dall’esterno, ma deve trovare in sé la forza per recuperare nel suo collettivo”.

GLOBALIZZAZIONE MENO GLOBALE

Avremo inoltre secondo Dassù una globalizzazione meno globale, anche se può sembrare una contraddizione in termini. È un trend pre-esistente, perché il declino del contributo del commercio globale alla crescita è destinato ad accentuarsi, “anche perché abbiamo scoperto di colpo la vulnerabilità delle catene globali del valore, in settori cruciali per la sicurezza sanitaria”. Si rafforzano i falchi che perorano la divisione tra l’economia americana e quella cinese, accanto al ritorno alle produzioni decisive in campo medico nei nostri Paesi. Per un continente come l’Europa trainato dall’export significa che dovrà prevalere la domanda interna. “Per cui è fondamentale salvaguardare l’integrità unica del mercato europo che all’inizio è stata messa in discussione dalle decisioni di creare barriere nazionali anche dinanzi all’esportazione di materiale sanitario. Come osservato da Pascal Lami, più che vero protezionismo vedremo del precauzionismo, con gli attori principali che seguiranno le proprie precauzioni, particolarmente in campo medico e sanitario”.

PIÙ STATO?

Sul piano politico si registra il ritorno alla centralità dello Stato, che si combina con tutte le crisi di sicurezza ma comporta due rischi principali: “In campo economico lo statalismo e in campo politico la regressione democratica come già abbiamo visto nel caso dell’Ungheria. Per l’Europa l’implicazione è abbastanza netta, ovvero come riuscire a difendere il proprio modello di economia sociale di mercato e di democrazia liberale, anche rispetto alle narrative in parte ostili che Cina e Russia hanno collegato alle loro politiche di aiuto”.

UNA GUERRA

“Come in una guerra, contro il virus non si avranno vincitori e vinti in senso specifico, ma nella sostanza dei perdenti relativi e nessuno dei grandi poli emergerà come modello”. La Cina non ha la credibilità per farlo, perché è difficile dimenticare quel mese in cui ha occultato dati e notizie sulla diffusione del virus a Wuhan, è la lettura di Dassù. Il Dragone sarà il Paese più colpito da questa riduzione della globalizzazione, essendo stato il maggiore beneficiario della stessa negli scorsi decenni, precisa. È prevedibile una riduzione dei tassi di crescita che in Cina si combina con la legittimità del Partito Comunista. Per cui non è escluso che in quel Paese si abbiano forti tensioni politiche e sociali. “Gli Usa dal canto loro hanno reagito in modo lento ed erratico, con Trump che ha dato l’impressione che combattere la Cina fosse più importante che combattere il virus. Forse i perdenti assoluti saranno i paesi in via di sviluppo, dove la riduzione degli investimenti e la debolezza intrinseca comporterà una situzione molto difficile, che si tramuterà in un problema per l’Europa”.

MA L’EUROPA È LENTA

Avremo un mondo ancora più digitale, con effetti precisi sul nostro modo di lavorare accanto a forti tensioni, come il rischio legato al capitalismo della sorveglianza e alla cessione di dati utili al controllo della pandemia, dice l’ex viceministro degli Esteri. “L’Europa arriva impreparata a questa crisi, così come ha fatto nei confronti della crisi finanziaria del 2008 e di quella dei rifugiati. Ogni volta c’è una lentezza del processo decisionale e tensioni interne, tra est e ovest nel caso dei rifugiati, tra nord e sud nel caso della crisi economica e di quella sanitaria come quella odierna”.

ITALIA VS OLANDA

Prendendo inoltre come paradigma Italia e Olanda, Dassù osserva che si può avere una cartina di tornasole della difficoltà sorta post Coronavirus. “L’Italia in qualche modo sovrastima l’importanza dell’Europa, ritenendo che possa risolvere tutto con una forma di deresponsabilizzazione, mentre l’Olanda come tutto il fronte del nord ritiene che sia una questione di responsabilità degli stati nazionali, cosa che non è. Per cui la questione di fondo è come avere un rapporto virtuoso tra stati nazionali e tavolo Ue. Tutto ciò mentre l’opinione pubblica in modo abbastanza preoccupato, specialmente in Italia, diventa sempre più scettica dinanzi alle capacità dell’Europa di intervenire”.

PARLA AMATO

“Un Paese come l’Italia che ha programmaticamente scelto di non avere più un elite, sta consentendo alle elites del momento di imporre un ordine del giorno come se fosse vero, attraverso una terminonologia della quale ci si avvale, sentimenti che si eccitano pro o contro”, osserva Giuliano Amato.

“Non sono affatto convinto che gli italiani adulti che conoscono l’Europa siano stupiti del fatto che in essa gli interessi nazionali giochino un ruolo rilevante. Il nostro problema, oggi come sempre, è quello di trovare un denominatore comune evitando che ricalchi gli interessi dei più forti. Inoltre non penso chei cittadini di nuove generazioni condividano tutto quello che elites del momento è riuscita a far prevalere come ciò che viene chiamato sentimento comune. L’atteggiamento dei giovani verso l’Europa è molto più orientato alla fiducia e non alla sfiducia. Quando qualcosa di positivo viene fatto dall’Europa finisce regolarmene in secondo piano, quindi si discute esclusivamente di ciò che non è ancora fatto”. Trova inoltre paradossale che il giudizio sull’Europa venga fatto dipendere solo dall’Olanda che certo sta esercitando un potere di veto con sostenitori anche in Germania, ma vi sono cose delle quali “siamo responsabili noi e altre di cui è responsabile l’Europa e non possiamo nascondere le nostre responsabilità dietro quelle che, a volte bene, ma spsso male, l’Europa assolve per quanto la riguarda”.

L’UE ALLE PROVE CON IL COVID-19

In occasione della pandemia, aggiunge Amato, abbiamo portato la discussione sul piano che preferiamo da almeno dieci anni, ovvero il tema degli eurobond, ogni volta facendo credere che servano a pagare i nostri debiti salvo il giorno dopo dire che non li immaginiamo per questo. “Il che tiene aperto l’equivoco su cui gli olandesi ficcano voluttuosamente il dito stimolando altre reazioni come le loro. Mi ha colpito che noi stiamo avendo un fenomeno epidemico di grandi proporzioni: i governi nazionali sono intervenuti troppo tardi rispetto a quando sarebbe stato il caso, come sto leggendo: se lo dice il prof. Fauci Trump si offende, ma vale anche per lui”.

Qui c’è stato un ritardo anche dell’Ue: la Commissione non ha usato come avrebbe pouto i pur limitati poteri che possiede in materia sanitaria stabiliti dall’art. 168 del Trattato. Quando faceva parte della convenzione per il futuro dell’Europa che nel 2003 partorì una Costituzione europea che poi non entrò in vigore venne elaborata una norma che riguardava un ingresso diretto dell’Unione nella protezione sociale. “Ricevemmo una lettera dall’allora cancelliere tedesco Schroeder: i miei lander non lo accetterebbero, scrisse. Cosa in questo momento riteniamo necessario? Che ci sia un significativo intervento finanziario che copra il fabbisogno di finanza che la ripresa potrà esigere di dover mettere sul poatto a beneficio dell’intero sistema delle economie europee. Ci stanno lavorando, è possibile che non siano eurobond, ma se non viene fomentata la ostilità verso un’Europa che non fa nulla, vorrei aspettare a capire come questa partita va effettivamente a finire”.

PRESTITI, NON TASSE

Stiamo ora aumentando di molto il nostro debito interno per queste ragioni, pensando che a tutto ciò provvederanno altri oppure che in buona parte tocchi anche a noi? “Non con altre tasse ma con prestiti sottoscritti in particolare da noi italiani”, propone D’Amato.

E ricorda che il banchiere bresciano Giovanni Bazoli tempo fa scrisse cose di grande interesse sul tema, ponendo in un modo politicamente tollerabile un tema tipico del nostro Paese. “Lo stesso tema che pose a suo tempo Galbraith al presidente Kennedy, che nutriva dubbi sull’apertura a sinistra che l’Italia si accingeva a fare, poi come noto l’atteggiamento della Casa Bianca fu aperto, aiutando la formazione del centrosinistra. Galbraith gli disse che l’Italia è un Paese povero abitato da diversa gente ricca. Per cui un prestito è un modo che esprime la fiducia nel proprio paese di destinare risparmio gestito da parte di italiani che ne hanno a sufficienza”.

twitter@FDepalo

 


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