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Covid-19, l’Iran in ginocchio. Perché nel Golfo riparte la tensione con gli Usa

Undici unità delle forze navali dei Pasdaran hanno accerchiato in modo sfrontato mezzi navali della US Navy e della Coast Guard nel Golfo Persico. Lincidente è avvenuto mercoledì, quando i barchini delle IRGC-N si sono infilati in mezzo a un gruppo statunitense in pattugliamento e hanno iniziato passaggi radenti e incroci, “manovre pericolose e provocatorie” dice Washington.

I barchini sono unità agili e rapide, che i marinai dei Guardiani (le IRGC, la forza militare della teocrazia) muovono con esperienza all’interno di acque e rotte di casa. Sono studiate per il Golfo Persico, dove in poche miglia nautiche si incrociano i passaggi di enormi petroliere e navi per il trasporto del Gnl, imbarcazioni commerciali e unità militari. I mezzi americani sono molto più potenti, ma anche più grandi e goffi. È questo l’aspetto tattico sottolineato da sempre, anche dopo l’incremento dello schieramento Usa dello scorso anno, quando quelle stesse rotte erano state teatro di sabotaggi e altro scorribande iraniane contro la logistica del petrolio.

Le immagini di mercoledì le ha trasmesse direttamente il CentCom, comando che per il Pentagono copre la regione mediorientale.

“Le azioni pericolose e provocatorie dell’IRGCN hanno aumentato il rischio di errori di calcolo e di collisione, [e] non erano conformi alla Convenzione internazionalmente riconosciuta sui regolamenti internazionali per la prevenzione delle collisioni in mare”, scrive la dichiarazione delle forze armate Usa. Gli iraniani si sono avvicinati a sei navi militari statunitensi mentre stavano conducendo “operazioni di integrazione con elicotteri dell’esercito in acque internazionali”.

Martedì, un tanker battente bandiera di Hong Kong, “SC Taipei”, è stato brevemente bloccato in Iran dopo che altri barchini dei Pasdaran lo avevano accerchiato nel Golfo dell’Oman. Fonti riferiscono alla Reuters che anche quella nave stava navigando in acque internazionali quando è stata fermata. Un episodio che ha fatto proprio tornare alla mente quanto accadeva con cadenza quasi giornaliera tra giugno e luglio dello scorso anno.

Ai tempi le operazioni aggressive dei Pasdaran erano una rappresaglia per il perpetuare della linea di massima pressione americana contro Teheran. Una linea scelta dall’amministrazione Trump, che ha fin da subito dichiarato netta ostilità verso l’Iran, arrivando, nel maggio 2018, all’uscita unilaterale dall’accordo Jcpoa sul nucleare iraniano — con conseguente re-introduzione delle sanzioni economico-commerciali.

Le azioni dei Pasdaran del 2019 erano iniziate proprio a maggio: celebravano un anno dall’uscita americana dall’accordo, decisione che — per via delle misure sanzionatorie secondarie — ha ridotto notevolmente l‘export di petrolio iraniano, e riaffondato il Paese nella crisi economica (petrolio e derivati sono il principale asset iraniano). Il Jcpoa, con l’eliminazione delle sanzioni precedenti, sembrava invece una luce per le casse di Teheran. Un meccanismo che, tramite la prosperità economica, avrebbe potuto essere un vettore di stabilità.

In queste settimane si gioca una partita simile. Teheran è piombata in una nuova crisi, prodotta dal dilagare del coronavirus SarsCoV2 che ha contagiato e ucciso migliaia di persone (con ogni probabilità molte più di quelle dichiarate nei dai ufficiali).

Il governo iraniano ha chiesto aiuto al Fondo monetario internazionale, perché la crisi epidemiologica si somma a quella economica già in atto. Un momento importante, in cui la leadership politica di Teheran ha accettato di cedere sovranità — elemento profondo nell’esistenza iraniana post-rivoluzione khomeinista — pur di riprendersi. È qualcosa di simile alle dinamiche pre-Jcpoa, e adesso come allora tutto è condotto da Javad Zarif, ministro degli Esteri che è la massima espressione del pragmatismo incarnato dall’esecutivo del presidente Hassan Rouhani.

La competizione è interna. La politica iraniana, come l’opinione pubblica, è divisa: c’è una linea moderna incarnata dalle seconde generazioni che vorrebbe portare il Paese fuori dalla traiettoria anti-occidentale aggressiva scelta dai padri fondatori della Repubblica islamica. La teocrazia è invece reazionaria, fatto salvo il ruolo di cerniera della Guida Ali Khamenei, è in corso una lotta ideologico-generazionale che nella richiesta d’aiuto all’Fmi ha uno dei suoi passaggi più violenti.

Il Fondo prenderebbe il controllo della spesa in Iran, e questo significherebbe la riduzione di benefici di cui gode la leadership teocratica e soprattutto il taglio ai capitoli di spesa sovrabbondanti. Per primi quelli relativi alla spesa militare (il sogno nucleare, ma non solo) e al sostentamento delle milizie partitiche regionali con cui i conservatori radicali di Teheran perseguono il disegno di una Grande Persia moderna.

Gli americani, che controllano l’Fmi con una quota di maggioranza che permette diritto di veto, potrebbero bloccare l’aiuto. Chiedono garanzie forti, temono che Teheran inganni sui bilanci e il prestito non blocchi alcune spese ostili. Incalzano: tagliate le spese per le “attività maligne” e avrete fondi a sufficienza. I radicali interni hanno seguito la linea. I barchini dei Pasdaran in mezzo alle navi americane sono un modo per dar credito alle perplessità americane.

L’ideale per chi, in Iran, ha interesse esistenziale — ideologico ed economico — nel mantenere il livello di ingaggio a bassa intensità contro gli Usa e l’Occidente. Nella narrazione del governo iraniano le azioni ostili sono descritte come atto di forza dovuto nei confronti di un nemico che, bloccando gli aiuti del fondo (e l’export di apparecchiature medico-sanitarie) verso Teheran, fa morire di stenti gli iraniani.

All’inizio di questo mese il presidente americano Donald Trump ha detto pubblicamente che l’Iran e le sue milizie proxy hanno pianificato un attacco furtivo contro gli obiettivi statunitensi in Iraq. Ce ne sono stati già diversi di questi attacchi più o meno intensi nei mesi scorsi, prima e dopo l’eliminazione da parte di un drone americano del generale Qassem Soulimani, leader dell’unità d’élite dei Pasdaran, e motore del piano con cui l’Iran vuole espandere la sua influenza regionale attraverso la crescita di milizie controllate.

La crisi in cui naviga il potere iraniano ha chiare ripercussioni nella regione e tocca in profondità anche il suo rapporto con i cittadini che chiedevano già apertamente di rovesciare quello stesso sistema rischiando la propria vita durante le manifestazioni del novembre 2019, ha chiari effetti regionali.

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