Oggi, 16 di aprile 2020, sono state interrotte le trattative tra Gantz, che aveva avuto dall’ormai vecchio presidente della Knesset Reuven Rivlin l’incarico di formare un governo, e il premier attuale Netanyahu.
Il Likud di Netanyahu ha vinto, nelle scorse elezioni del 2 marzo, 36 seggi, mentre la lista capitanata da Gantz ne ha raggiunti 33. L’unica possibilità, almeno fino alla notte prima del momento in cui scriviamo, era quella di accettare, e infatti questo è accaduto, un generico governo di unità tra il partito di Gantz, già capo di Stato Maggiore dell’Idf, Hosen L’Yisrael, traducibile con “Il partito della Resilienza di Israele” e il Likud di Netanyahu. Un patto con una “staffetta” biennale tra i due premier e i due partiti.
L’accordo prevedeva un primo premierato allo stesso “Bibi” (che in ebraico moderno significa “ascolta”) per metà del mandato pieno, due anni, con il prosieguo della premiership a carico di Gantz che, nel frattempo, avrebbe seduto nel ministero Netanyahu come ministro degli Esteri o della Difesa, o comunque un incarico di grande rilievo.
Nel frattempo Gantz, che è stato anche presidente della Knesset, avrebbe dovuto rinunciare al mandato di successore di Rivlin, il precedente capo della Knesset, per sedere nel governo di “unità nazionale” tra il suo partito e il Likud.
All’inizio, le offerte del capo del Likud di un governo di unità nazionale sono state accettate solo cum grano salis da Gantz, che ritiene necessario un governo unitario soprattutto per coordinare le azioni contro la infezione da coronavirus.
Ovvio è aggiungere che, in un contesto politico così delicato, si fanno avanti molti dubbi, anche sulla affidabilità reciproca dei partner, o sulla solidità della loro compagine parlamentare, che potrebbe magari sfaldarsi, nel caso del Likud, se Netanyahu premesse troppo sulla sua salvezza personale dalle inchieste che lo riguardano, il che è comunque una issue inevitabile della trattativa tra i due partiti, oppure se Gantz premesse troppo per un accordo, costi quel che costi, con il Likud, linea che potrebbe non piacere a buona parte del suo partito e delle sue alleanze parlamentari.
Quindi, una nuova elezione politica si staglia, con la massima probabilità, all’orizzonte di Israele, e vedremo quali sono le prospettive dei vari partiti.
Quali le prospettive, quindi, così come sono state analizzate da molti esperti di politica israeliana?
C’è, inizialmente, una ipotesi di un governo del solo Likud, che però ha solo 58 voti a disposizione, con almeno 62 membri della Knesset che non lo voteranno proprio mai. E la questione del processo a Netanyahu è ritenuta, dal 72% degli elettori israeliani, fondamentale per determinare il prossimo parlamento.
Qualche defezionista? È sempre probabile, quando le sirene del governo cominciano a suonare il loro melodioso, irresistibile canto.
Gli 11 partiti di opposizione, comunque, sono uniti da una profonda antipatia nei confronti del leader del Likud.
La Legge Fondamentale di Israele permette peraltro che il potenziale primo ministro possa avere non la maggioranza assoluta, ma quella relativa.
Netanyahu ha a disposizione 58 voti sicuri, le astensioni (bastano quelle) potrebbero portarlo perfino a una possibile ma risicata maggioranza.
C’è ancora la possibilità, già sperimentata, ma ormai crediamo remota, di un governo di coalizione tra i due maggiori partiti, il Likud e il Partito della Resilienza di Israele di Gantz.
Il leader del Hosen L’Ysrael ha, proprio durante la notte dei risultati di marzo, rifiutato l’idea di una alleanza con Netanyahu, chiedendo che il premier vada sotto processo, ma le cose sono andate, lo sappiamo, altrimenti.
Poi, ci sarebbe la possibilità di un governo Likud-Kahol-Lavan, “Blu e Bianco”, l’alleanza tra Benny Gantz e il partito di Yair Lapid, leader del partito Yesh Atid (“C’è un futuro”) ed ex-ministro delle finanze di Netanyahu dal 2013 al 2014.
E con un governo, lo ripetiamo, diretto da Netanyahu. L’alleanza “Blu e Bianco” è certamente legata al partito, maggioritario, di Benny Gantz, ma ci sono anche Yesh Atid di Lapid e Telem (Tnua Leumit Mamlakhtit, “Movimento Nazionale dei Simili agli Statisti”) un movimento in ricordo di un vero grande di Israele, e mio antico amico, Moshe Dayan.
Altra ipotesi, se non ci saranno le elezioni, sempre più terribilmente vicine dopo il mancato accordo di ieri notte, è un governo che, utilizzando il gergo politico italiano, potrebbe essere delle “larghe intese”.
L’idea è stata proprio di Gantz, certamente per diluire il Likud e il suo capo-Premier (da 11 anni) in una “cintura di sicurezza” tendenzialmente favorevole ai “Blu e Bianchi”.
L’idea però non è piaciuta né allo Shas, partito di antica (1964) rappresentanza degli Ebrei sefarditi, haredim e Mizrahi, né al Partito Unito del Giudaismo della Torah, alleati storici del Likud, quindi è, al momento, non percorribile.
Gantz però potrebbe fare il suo governo di minoranza con la sua coalizione “Blu e Bianca”, (33 seggi) e con Yisrael Beitenu, (“Israele casa Nostra”) un partito nato contro il sionismo religioso, di destra, molto antislamico.
Yisrael Beitenu ha sette seggi oggi a disposizione nell’attuale Knesset.
Non è nemmeno impossibile, ancora oggi, una partecipazione, magari molto soft, perfino di alcuni parlamentari arabi della Knesset.
Ma Gantz potrebbe perfino giocarsela con un governo di minoranza, secondo l’ormai antica tradizione israeliana, che ha sempre visto, con una sola e breve eccezione, governi a maggioranza assolta dei voti parlamentari.
In effetti, l’opposizione a Netanyahu ha la maggioranza, infatti, della Knesset, 62 a 58.
L’unico partito escluso da questa configurazione sarebbe, prevedibilmente, Yisrael Beitenu, ma c’è anche la possibilità che perfino una parte del Likud si allontani da “Bibi” Netanyahu.
Non ci sono ancora segnali espliciti di questo split, ma alcuni importanti quotidiani israeliani ne ventilano la possibilità.
Certo, per Gantz ci sarebbe anche a disposizione il partito-alleanza Yamina, di destra, diretto da Naftali Bennett, che ha solo 6 seggi.
Shas e l’altro partito religioso non romperanno certo il loro patto con Netanyahu, e si accorderanno anche con Lieberman, leader di Israel Beitenu, che pure ha detto di non voler più a che fare con i partiti religiosi.
Quindi, non ci sono i numeri, oggi, per un governo di minoranza da parte di Gantz, ma si potrebbe fare, se Netanyahu dovesse abbandonare il potere e liberare il completo potenziale di alleanze attuali del Likud.
L’attuale primo ministro ha comunque due problemi: rimanere a capo del governo quando inizia il processo che lo riguarda, magari pensando che il suo ruolo possa influenzare o intimidire i giudici, e quindi Gantz è stato costretto a accettare, il che credo gli convenga, un ruolo di Primo Ministro successivo al biennio di “Bibi” Netanyahu.
Ma il capo del Likud vuole anche che il governo si faccia comunque e al più presto, il che potrebbe essere una buona carta anche nelle mani di Gantz e dei suoi “Blu e Bianchi”.
Ma, d’altra parte, il Likud e il suo primo ministro non vogliono, nel modo più assoluto, un governo di minoranza diretto da Gantz, che lo spedirebbe nel porto delle nebbie, e personalmente pericoloso per lui, dell’opposizione.
E se ci fosse, allora, un governo diretto né da Benny Gantz né da “Bibi” Netanyahu?
Ovvero, il leader del Likud potrebbe dire al capo dei “Blu e Bianchi” che il suo partito rimane il più votato e stabile nella Knesset, e può cedere la Premiership ad un’altra figura, ma solo del suo stesso partito, bloccando la procedura del ricambio biennale e proponendo a Gantz una semplice presenza “importante” nel prossimo governo, come uno degli alleati, tra gli altri, della coalizione da lui diretta.
Gantz, detto tra noi, non ha mai davvero creduto in un normale passaggio della premiership dopo i due primi anni del governo di “grande coalizione” tra i “Blu e Bianchi” e il Likud, probabilmente non si è mai fidato di Netanyahu, forse nemmeno a livello personale ma, se l’attuale primo ministro avesse la peggio in giudizio, la sua possibilità di determinare il primo ministro “nuovo” del Likud e il resto della delegazione governativa sarebbe molto bassa. Netanyahu, peraltro, non ha mai presentato un suo successore, né ha mai indicato alcun ministro dei suoi Gabinetti come primus inter pares nel Likud e nei Governi.
C’è anche la possibilità che lo stesso Netanyahu firmi un accordo con la Corte, un deal tale per cui dovrebbe dimettersi da Premier, ma in cambio di una sentenza molto più “morbida” del previsto, che lo lascerebbe in gara per i futuri Governi. E con tanti soldi risparmiati, invece di pagare notule da capogiro per i suoi avvocati.
Nessuno può dirlo, oggi, ma niente è impossibile, in un contesto così complesso come quello della politica israeliana.
E una nuova elezione, che si staglia sempre più probabile dopo le scelte della notte scorsa?
Il Comitato Elettorale Centrale ha già iniziato le preparazioni per le prossime elezioni, che dovrebbero tenersi il 6 settembre prossimo.
Lo Stato sta andando avanti con le previsioni di spesa dell’anno scorso, quindi molte delle attività semi-private dell’Amministrazione che devono procedere con fondi extra-budget, soprattutto in una fase di emergenza Covid-19 che, si dice in Israele, ha generato fino ad ora un aumento immediato del 23% dei costi pubblici.
Una rete di sostegno privato, già in crisi, che potrebbe mettere in difficoltà i partiti religiosi, che sono fedeli alleati del governo Netanyahu.
L’unico che potrebbe essere felice di nuove elezioni è peraltro proprio Netanyahu, che rimarrebbe altri mesi, mesi-chiave, al potere; e potrebbe perfino sperare in un ritardo ope legis del processo.
Un elemento di particolare complessità del sistema politico israeliano è la sua ampia scelta di partiti.
Sono 9, tra liste e partiti veri e propri, che sono 11, rappresentati alla Knesset, e la crisi economica indotta dalla pandemia da Covid-19 è, fin da oggi una cosa molto seria.
I disoccupati, nel 2019, erano circa 157.000, ma oggi si calcola che arrivino già al mezzo milione.
Israele ha un notevolissimo surplus delle partite correnti e della bilancia dei pagamenti, vastissime riserve in moneta estera, un debito pubblico oggi ancora al 60% del Pil, e il suo sistema bancario ha larghe disponibilità di capitali e molta liquidità.
Quindi, il tempo di stabilità finanziaria e economica, in fase da crisi di Covid-19, è molto lungo, certamente più lungo di quello di qualsiasi altro Paese della Ue, ma ci sono due valutazioni da fare, una strategica e l’altra strettamente economica.
Dal punto di vista geopolitico, la situazione in Siria e in Libano potrebbe aggravarsi, e un Paese che vive con 1/12 al mese della liquidità del budget 2019 non può permettersi una spesa militare eccezionale, anche ora che ce ne sarebbe bisogno.
E gli altri Paesi arabi e islamici, pur in forte crisi da coronavirus, hanno la possibilità di riversare ancora la rabbia sociale contro un nemico esterno.
Seconda valutazione: se la crisi politica dovesse ripresentarsi dopo le elezioni del 6 settembre, allora l’instabilità dell’esecutivo di Gerusalemme diventerebbe una variabile importante della equazione strategica iraniana, libanese, giordana, egiziana.
E, in ogni caso, anche se si tratta di Paesi tutti in crisi da coronavirus, non sarebbe una facile situazione per Israele. E una sequenza di attacchi mirati, dentro e fuori i confini dello Stato ebraico, sarebbe da mettere in conto.