Sottovalutazione. Non può che venire in mente almeno questa parola leggendo la nota che la Conferenza Episcopale Italiana ha diramato dopo la conferenza stampa del presidente del Consiglio di ieri sera. Sottovalutazione del fatto religioso in sé, ma anche sottovalutazione dell’impegno del mondo cattolico, Chiesa, movimenti e laicato organizzato, nella gestione di questa gravissima crisi e delle sue conseguenze. Non si tratta solo di sottovalutazione dell’assistenza a chi ha bisogno, dell’aiuto ai tantissimi nuovi poveri. Ma di sottovalutazione di quanto la Chiesa, oltre alla scienza, abbia contribuito a contenere la pandemia. La Chiesa Italiana ha saputo contrapporre un argine fondamentale a chi aveva proprio un’altra idea. Dunque per capire l’aria che deve tirare nei sacri palazzi occorre farsi una passeggiata tra i siti dell’estremismo, del radicalismo cattolicheggiante che vuole dipingere l’indispensabile sospensione dei riti cattolici, lì degli altri non interessa granché, come un tentativo di scristianizzazione del Paese. È difficile scorgere una linea diversa in quanto affermato da alcuni, a cominciare dall’ex nunzio negli Stati Uniti, monsignor Viganò, che invocava messe partecipate e processioni salvifiche già nei primi giorni della chiusura. Era il 14 marzo quando in una sua riflessione scriveva: “Aprite, anzi spalancate le porte a Cristo! Aprite, anzi spalancate le porte delle nostre chiese perché i fedeli vi possano entrare, pentirsi dei loro peccati, partecipare al Santo Sacrificio della Messa e attingere al tesoro di grazie che sgorgano dal Cuore trafitto di Cristo, nostro unico Redentore che può salvarci dal peccato e dalla morte”.
Con una grande prova di salda responsabilità i vertici della Conferenza Episcopale Italiana hanno respinto questa “contestazione”. Per coglierne tutta la portata si deve ricordare che tutti i dizionari come tutte le enciclopedie ci confermano che Ecclesia vuol dire assemblea. Era il 2014, quindi un tempo in cui nessuna pandemia era all’orizzonte, quando il vescovo di Rimini scriveva: “Non è né un gioco di parole né un circolo vizioso e nemmeno un lambiccato calembour, un ingarbugliato bisticcio teologico. Il rinomato e spesso ripetuto aforisma coniato dal teologo Henri de Lubac (+1991) e testualmente riportato nel titolo, enuncia una verità limpida, preziosa, irrinunciabile. In negativo, dice che non c’è Eucaristia senza Chiesa e non c’è Chiesa senza Eucaristia. In positivo, afferma che l’Eucaristia rivela, edifica e plasma la Chiesa, mentre la Chiesa celebra, attualizza e vive l’Eucaristia. Facendo l’Eucaristia, la Chiesa realizza se stessa. L’Eucaristia rende la Chiesa eucaristica; la Chiesa rende l’Eucaristia ecclesiale”.
Dunque la scelta dei vescovi era dovuta, ma non indolore. Ora che si riparte un’attenzione che andasse oltre l’indiscutibile necessità di consentire i riti funebri appariva dovuta. L’esito peggiore per tutti sarebbe produrre, o riprodurre, uno scontro tra fede e scienza. Nell’enciclica Pacem in Terris Giovanni XXIII fu molto chiaro al riguardo. Dopo aver scritto che la nostra civiltà si contraddistingue per i suoi contenuti tecnico-scientifici, aggiungeva: “Non ci si inserisce nelle sue istituzioni e non si opera con efficacia dal di dentro delle medesime se non si è scientificamente competenti, tecnicamente capaci, professionalmente esperti”.
Se la gestione della pandemia riallontanasse fede e ragione sarebbe un disastro. Quindi anche gli scienziati dovrebbero sapere che la celebrazione non è meno importante di altre urgenze. La necessità di una considerazione esplicitata di questa evidente realtà si legge chiara in quanto ha scritto il direttore di Avvenire, Marco Tarquinio: “Non si può pensare di affrontare una generale ‘ripartenza’ che si annuncia delicatissima rinunciando inspiegabilmente a valorizzare la generosa responsabilità con cui i cattolici italiani – come i fedeli di altre confessioni cristiane e di altre religioni – hanno accettato rinunce e sacrifici e, dunque, senza dare risposta a legittime, sentite e del tutto ragionevoli attese della nostra gente”. Dunque c’erano delle ragionevoli attese. Saranno state ordinate, rispettose, graduali.
Guardando oltre non si può non soppesare con preoccupazione un’altra emergenza. Proprio nella settimana di Pasqua sono apparsi su network nazionali e in importanti fasce orari, la cosiddetta prima serata, rivelatrici inserzioni pubblicitarie, con tanto di numero verde per stabilire un contatto. Erano di un gruppo cristiano facoltosissimo, la Billy Graham Evangelistic Association. È un segnale. Il segnale che in assenza di un rapporto diretto con la propria parrocchia, la propria chiesa, si rende più appetibile un’altra offerta, una sorta di “chiesa fai da te”, nella quale può passare un messaggio nuovo, destrutturante, basato magari su quel vangelo tutto nuovo, il vangelo della prosperità, di cui si comincia tanto a parlare anche in Italia. Il fenomeno dei telepredicatori è noto, rappresenta una sfida, o una minaccia a seconda dei punti di vista, che oggi non può essere sottovalutata. Neanche dal comitato tecnico-scientifico.
Indubbiamente questi mesi di quarantena hanno consentito alla Chiesa cattolica di attrezzarsi meglio alla sfida sul web, cioè a organizzare e pensare una presenza, una vicinanza anche a chi, per l’organizzazione della vita moderna, magari anche in tempi non di pandemia, ha più difficoltà ad andare in parrocchia. Distanze, età, condizioni familiari, rendono tutto questo un’urgenza anche per la Chiesa del tempo delle megalopoli. Anche per la Chiesa dunque, e più in generale per la fede, questa terribile sfida è stata un’occasione per capire il mondo e attrezzarsi a un’evangelizzazione e una cura pastorale più adeguata al presente. Ma accanto a questo c’è un presente nel quale il ruolo del culto organizzato ha un’importanza che rimane primaria per lo Stato. Non capirlo sarebbe irresponsabile. Senza con questo pensare che abbia torto chi predica un ritorno alla normalità lento, attraverso un’indispensabile cautela e gradualità.