Sono venuti a prenderli per ammanettarli, dalla notte al giorno. Martin Lee, 81 anni, storico fondatore del Partito democratico di Hong Kong. Lee Cheuk Yan, 63 anni, veterano dell’attivismo democratico. Jimmy Lai, 71 anni, imprenditore televisivo. C’erano anche loro nella retata che la scorsa settimana ha messo dietro le sbarre 15 attivisti con l’accusa di aver partecipato “illegalmente” a proteste di piazza il 18 agosto, il 1 e il 20 ottobre del 2019.
“Non fanno distinzione fra giovani e anziani, siamo tutti nel mirino. È una rivoluzione intergenerazionale, noi abbiamo raccolto il testimone dei sacrifici delle generazioni precedenti, siamo un’unica catena”. Joshua Wong non fa che ribadirlo: le proteste per la democrazia a Hong Kong sono un canto corale, non si tratta di “eroi” ma di “lottare per quello che è giusto”. Segretario del partito Demosisto, Wong, 23 anni, in piazza da quando ne ha 15, già protagonista della Rivoluzione degli Ombrelli, ora è il volto più riconoscibile dell’ondata di manifestanti, e uno dei più odiati dal governo cinese.
Non che ne faccia un vanto, anzi: “Questa attenzione dei media internazionali nei miei confronti a volte non rende merito delle giuste proporzioni, il team è fondamentale, senza di loro non saremmo da nessuna parte”. Al telefono risponde telegrafico alle domande, dalla sede del suo partito. Meglio chiudere in fretta una conversazione che potrebbe essere ascoltata da terzi incomodi.
“Sono stato arrestato otto volte, ho subito due processi. Ma il prezzo che pago è relativamente piccolo rispetto a quelli di altri compagni. In un anno migliaia di persone sono state private della loro libertà, ho amici che scontano pene di sei anni e anche più solo per essere scesi in piazza”, spiega a Formiche.net. In Italia, oggi, è la Festa della Liberazione, ricordiamo a Wong. A Hong Kong, il “Porto Profumato”, decine, centinaia di migliaia di persone da anni sperano di poter partecipare alle stesse celebrazioni.
Sulla carta, Hong Kong gode di autonomia rispetto al governo centrale cinese. Lo spiega la Dichiarazione congiunta sino-inglese del 1984: al porto deve essere riconosciuto “un alto livello di autonomia” da Pechino, all’insegna del motto “Un Paese, due sistemi”. Ma alla Città Proibita quel motto sta sempre più stretto. E nessuno ne fa mistero, dai vertici del partito ai funzionari locali. Lo scorso week end, a ridosso degli arresti, l’ufficio di rappresentanza cinese a Hong Kong lo ha chiarito con un comunicato al vetriolo: “Un alto livello di autonomia non significa completa autonomia”. Il diritto di Hong Kong all’autogoverno è, a scanso di equivoci, “autorizzato dal governo centrale” e “l’autorizzante ha poteri di supervisione sull’autorizzato”.
L’apparente calma piatta che ha avvolto le strade di Hong Kong da quando è scoppiata la pandemia del coronavirus non è che una tregua di cartapesta, spiega Wong. “Ora i virus sono due, quello del Covid-19 e quello autoritario. Xi sta usando la pandemia come copertura”. In due mesi i timori iniziali degli attivisti sono diventati realtà. L’emergenza globale del virus scoppiato a Wuhan ha messo in piedi una grande “operazione distrazione”. “Ovvio, l’emergenza è globale e spegne i riflettori sulla violazione dei diritti umani a Hong Kong. Ma i fatti sono innegabili. Ogni leader mondiale, che lo ammetta o no, ha potuto osservare con i suoi stessi occhi le bugie della Cina al mondo, l’assenza totale di trasparenza sui numeri della pandemia, la propaganda per dare ad altri la colpa. La Cina deve essere messa di fronte alle sue responsabilità”.
Il giovane attivista non perde le speranze. Gli è stato negato l’espatrio dalle autorità di Hong Kong, e a fatica può partecipare a qualche videoconferenza in giro per il mondo. È in attesa di un altro processo. Le manifestazioni del primo maggio sono state messe al bando, con una decisione inappellabile, ora che il Covid-19 impedisce gli assembramenti. Alla stessa sorte sono destinate, va da sé, quelle per commemorare il massacro di Tienanmen, a giugno.
“Non so se sono ottimista, sicuramente sono orgoglioso. Nell’ultimo anno un terzo della popolazione è sceso per le strade, nelle piazze, affrontando la polizia a proprio rischio e pericolo. Il Pcc ha cercato di raggiungere un compromesso, senza riuscirci. Siamo riusciti noi a far ritirare la vergognosa legge sull’estradizione”, dice Wong. “Non abbiamo alcun rimorso, abbiamo fatto tutto quello che era fisicamente possibile. Si dice spesso che Hong Kong è famosa per essere un campione dell’economia. Noi abbiamo dimostrato al mondo che i cittadini di Hong Kong sono anzitutto campioni di democrazia”.
“Pupazzo”, “pagliaccio”, “burattino”, sono tra i più dolci appellativi con cui i bot (profili automatizzati) filogovernativi cinesi accolgono a migliaia ogni post di Wong su Twitter. Lo chiamano “schiavo degli Stati Uniti”. “Propaganda di regime, la conosciamo bene – risponde lui con una scrollata di spalle – Quando vogliono screditarti, i regimi autoritari si inventano fake news. Sono ovviamente accuse senza fondamento, io non sono il burattino di nessuno, sono solo uno che lotta per quel che ritiene giusto. E il supporto degli Stati Uniti e di qualsiasi altro Paese, a prescindere dalla sua collocazione geografica, è più che benvenuto”.
Questo, ultimamente, è un tasto dolente per il fronte di attivisti a Hong Kong. Se si spengono i riflettori internazionali, si spengono le speranze. Qualche Stato che si riteneva amico ha già voltato la faccia dall’altra parte. “No, non mi sento tradito da nessuno – confida Wong – Ma deve passare questo messaggio. Per noi è importante, vitale avere il supporto della comunità internazionale. I riflettori non si devono spegnere. Xi non aspetta altro che usare la pandemia come copertura per colpire Hong Kong”.
Ci sono gli Stati, certo, ma anche e soprattutto le organizzazioni internazionali. L’Onu, e la miriade di organismi multilaterali che gli fanno capo, sono nati anche per questo: vigilare sulla governance globale, e tutelare il rispetto dei diritti umani. La pandemia del Covid-19 sta dimostrando che tra la teoria e la pratica c’è un oceano. “Abbiamo imparato negli anni a comprendere la strategia di Pechino, il modo in cui manipola le organizzazioni dell’Onu, il suo Consiglio per i diritti umani, impedendo di supportare Hong Kong. È in corso una persecuzione politica con l’aperta complicità di alcuni organismi internazionali che dovrebbero invece combatterla, chiediamo alla comunità internazionale di prendere azioni concrete per aiutarci”.
Un nome è sulla bocca di tutti, Wong non si fa problemi a scandirlo. “Il caso dell’Oms (Organizzazione mondiale della Sanità, ndr) è ormai tristemente noto al mondo. Gli interessi del Partito comunista cinese sono stati di continuo messi davanti a quelli della salute globale. Le organizzazioni internazionali non dovrebbero mai trasformarsi nel burattino di un singolo Stato, tanto meno di uno Stato autoritario”. Un pensiero finale va a Taiwan, l’isola che teme tanto quanto Hong Kong che la crisi spenga i riflettori. “Non è stata informata dall’Oms dell’emergenza, perché se fosse stata coinvolta nei processi decisionali la Cina ne avrebbe avuto un danno di immagine enorme. Deve essere ammessa, se lo avessero fatto mesi fa avrebbero salvato migliaia di vite”.