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Da Huawei alla Via della Seta. McMaster svela forza (e debolezza) della Cina

Più che Città Proibita, un castello di sabbia. Da fuori il Partito comunista cinese (Pcc) e il suo segretario, Xi Jinping, sembrano un monolite granitico. Ma dietro la sicurezza ostentata si cela l’orlo di un dirupo. È il generale Herbert Raymond McMaster a raccontare un retroscena inedito dei palazzi del potere di Pechino. Lo fa nel suo ultimo libro, “Battlegrounds: the fight to defend the free world” (Harper), in uscita a maggio.

McMaster è oggi un membro del Council on Foreign Relations, ma fino a due anni fa è stato il consigliere per la Sicurezza Nazionale del presidente Donald Trump. Prima ancora, un pilastro delle forze armate Usa, capitano nella Guerra del Golfo, poi braccio destro del generale David Petreus nelle operazioni di controguerriglia in Iraq e in Afghanistan.

In un estratto del libro pubblicato su The Atlantic, McMaster apre uno spaccato sulla corsa all’egemonia cinese. Una corsa, spiega il generale, che è dettata anche dalla paura. “I leader del partito credono di avere una finestra stretta di opportunità strategia per rafforzare il loro controllo e rivedere l’ordine internazionale a loro favore – prima che l’economia cinese affondi, prima che la popolazione invecchi, prima che altri Paesi realizzino che il partito sta perseguendo il ringiovanimento della nazione a loro spese, e prima che eventi non previsti come la pandemia del coronavirus espongano le vulnerabilità che il partito ha creato nella sua corsa al sorpasso degli Stati Uniti per realizzare il sogno cinese”.

McMaster riavvolge il filo della memoria e ricorda la visita di Stato di Trump a Pechino, dove ha accompagnato passo passo il presidente insieme alla First Lady Melania, all’allora segretario di Stato Rex Tillerson e all’ambasciatore Usa a Pechino Terry Branstad. Era il novembre 2017, e sole tre settimane erano trascorse da quando Xi aveva esternato il suo pensiero, e il suo mandato, nella Costituzione del Pcc. Guidato attraverso un tour della Città Proibita da Xi in persona e dal premier Li Keqiang, McMaster ne ebbe l’impressione di “un senso di profonda insicurezza”. “Quando lasciai la Cina, mi convinsi che un drammatico cambio della politica estera americana fosse necessario. La Città Proibita doveva infondere sicurezza nella rinascita nazionale cinese e nel suo ritorno sullo scenario internazionale come orgoglioso Regno di Mezzo. A me invece trasmise il senso di paura e di ambizione che guidano gli sforzi del Pcc nell’estendere l’influenza cinese lungo le sue frontiere e oltre, per riguadagnare l’onore perso nel secolo dell’umiliazione – scrive il generale – paure e ambizioni sono inseparabili. Spiegano perché il Pcc sia ossessionato dal controllo – sia interno che esterno”.

Una percezione di urgenza detta la tabella di marcia della politica estera cinese. E questa urgenza spiega perché, nonostante le pie illusioni di una parte del mondo accademico e politico, la globalizzazione e l’espansione cinese abbiano stretto, non allentato, la morsa del controllo autoritario. “Mentre la Cina persegue la strategia di cooptazione, coercizione e occultamento, i suoi interventi autoritari sono diventati onnipresenti”, scrive McMaster. Un controllo interno, contro le minoranze religiose, i musulmani nello Xinjiang, i buddisti in Tibet, la Chiesa cattolica e la miriade di chiese protestanti, “il partito ha rimosso a forza le croci dalla cima delle chiese e perfino demolito alcuni edifici per dare l’esempio”. E poi ancora, contro i protestanti a Hong Kong, che nel 2019 hanno disturbato non poco il sonno dei vertici del partito.

All’estero, il controllo si trasforma in ricerca dell’egemonia. Il disegno di Xi è noto, ma ha appena iniziato a prendere forma. “Made in China 2025 è disegnato per aiutare la Cina a diventare una potenza scientifica e tecnologica indipendente”. Per farlo, “il partito sta creando monopoli hi-tech dentro la Cina e privando le aziende straniere della loro proprietà intellettuale attraverso il furto e i trasferimenti forzati di tecnologia”. Il caso delle joint-ventures cinesi per obbligare le aziende estere a cedere know-how è tristemente conosciuto.

Poi c’è la Belt and Road Initiative (Bri), la nuova Via della Seta di Xi pronta a unire via terra e via mare la Cina all’Europa, all’Africa e perfino all’Oceania con un mastodontico piano di investimenti nelle infrastrutture. Dietro la sbandierata cooperazione win-win c’è un disegno preciso, denuncia l’ex Consigliere della Sicurezza Nazionale, la “trappola del debito”: “Dapprima Pechino offre ai Paesi prestiti da grandi banche cinesi per progetti infrastrutturali di larga-scala. Una volta indebitati, il partito costringe i loro leader ad allinearsi con l’agenda di politica estera cinese e a contrastare l’influenza degli Stati Uniti e dei loro principali alleati”.

Per ultimo, il fronte tecnologico. Una legge del 2017 obbliga le aziende cinesi a “supportare, assistere e collaborare con il lavoro dell’intelligence nazionale”. “La fusione militare-civile incoraggia aziende di Stato e private ad acquistare aziende con tecnologie avanzate – spiega McMaster – oppure una forte minoranza, cosicché quelle tecnologie possano essere usate non solo a fini economici ma anche a vantaggio militare e di intelligence”. Il caso del 5G, la rete di ultima generazione su cui Usa e Cina hanno costruito una feroce competizione globale, non è isolato.

Cosa possono fare gli Stati Uniti per rispondere, per parafrasare un celebre libro di Joshua Kurlantzic, alla “not-so charme offensive” cinese? McMaster ha qualche idea.

L’iniziativa deve partire dal settore privato. “Per le tecnologie dual-use, il settore privato dovrebbe cercare nuove partnership con chi condivide l’impegno verso il libero mercato, i governi rappresentativi, lo stato di diritto, non con chi agisce contro questi principi”. Fermare e sanzionare “le aziende cinesi direttamente o indirettamente coinvolte nella violazione dei diritti umani e dei trattati internazionali”.

Fermare soprattutto, e senza ricorrere a mezzi termini, la corsa della cinese Huawei al 5G. “Diversi dipendenti sono contemporaneamente impiegati del ministero della Sicurezza cinese e del braccio di intelligence dell’Esercito di liberazione cinese”, dice McMaster, “I tecnici di Huawei hanno usato dati telefonici intercettati per aiutare i leader autocratici in Africa a spiare, localizzare e silenziare gli oppositori politici”.

Ora è compito dei governi occidentali, spiega il generale, “sviluppare un’infrastruttura, soprattutto nelle comunicazioni 5G, per un network affiabile che protegga i dati sensibili e privati”. L’unico modo per arrestare l’avanzata cinese, conclude l’ex consigliere di Trump, è “competere, aggressivamente”.

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